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Abstract :

A04. La farmacia iatreica e ieratica dal magismo e paganesimo al tempo di Dio con l'uomo

La farmacia iatrèica e ieratica                                                                     dal magismo e paganesimo al tempo di Dio con l’uomo

 

L’origine della farmacia risale alla notte dei tempi e si confonde con il mito.

Spesso nel mondo antico molte osservazioni di fenomeni naturali e loro integrazioni in un sistema dotato di una sua peculiare razionalità sono disperse e nascoste sotto il velo del mito e della leggenda, della struttura magico-religiosa o dell’opera teatrale o letteraria.

Ovviamente, trovare la verità da cui originano le leggende è come afferrare un frammento di infinito!

In età remota la figura del farmacista è tutt’uno con quella del medico, del sacerdote, dello stregone.

Ritenendosi, inoltre, per lunghissimo tempo che molte malattie sono causate da spiriti maligni che invadono la testa, si ricorre, addirittura, all’apertura del cranio per estrarne la materia ritenuta infettata.

Risale al 2700 a.C. il più antico testo di farmacologia conosciuto: una tavoletta in caratteri cuneiformi della città di Ur in Mesopotamia, rinvenuta nei primi decenni del XX secolo e decifrata solo nel 1953, contenente una dozzina di ricette del medico-farmacista Lulu, con preziose indicazioni circa i componenti e le procedure per la preparazione di pomate, decotti e lozioni. In questo testo, incredibilmente, la materia farmacologica è trattata con metodo “scientifico”, ovvero senza cedimento alcuno ai diffusissimi riti di magia e stregoneria che, del resto, prima, durante e dopo, fino ai tempi attuali, hanno sostituito o, nel migliore dei casi, affiancato le pratiche mediche e farmaceutiche.

Nel contempo “En arché en ho Lógos(1)”: Dio “In principio era il Verbo”.

E nella Bibbia con la parola farmakia si definiscono tutte le arti con cui Babilonia sedusse il mondo; è agevole immaginare che si allude ai filtri amorosi ed agli afrodisiaci. Verificandosi, però, nel tempo anche effetti deleteri con queste terapie, al concetto iniziale subentra quello di tossico o veleno(2).

Famoso, inoltre, è il rimedio biblico contro la cecità dal Libro di Tobia: “L’Angelo disse a Tobia: afferra il pesce(3), aprilo e togline il fiele, il cuore e il fegato. Il fiele e il cuore possono essere utili medicamenti. (6.1) […] Poi Raffaele gli disse: prendi in mano il fiele, spalmalo sugli occhi(4). Il farmaco intaccherà e asporterà come scaglie le macchie bianche dai suoi occhi. Così tuo Padre vedrà la luce.”(11,7).

In Egitto, poi, all’interno della scienza medica si distinguono due diversi filoni: il magico-religioso, comprendente elementi molto primitivi, e l’empirico-razionale, basato su esperienza e osservazione, privo di componenti mistiche.

Durante la III dinastia il medico inizia a distinguersi come figura di scienziato, benché primitiva, diversa dallo stregone e dal sacerdote. Tra le divinità egizie sono di interesse “sanitario”: Iside, dea della salute; Horus, simbolo della lotta tra salute e malattia; Thot, con potere sulle affezioni oculari; Harpokrate, dai poteri protettivi e taumaturgici; Sekhmet, contro i dèmoni portatori di malattie e di pestilenze, protettrice di medici e chirurghi, i cui sacerdoti sono tutti medici; Sobek, guaritore e Tauret, protettrice delle gestanti, dell’allattamento e dell’infanzia.

Intorno all’800 a.C. vi sono i medici itineranti Etruschi dei quali nulla si sa tranne rari riferimenti. Benché la medicina etrusca sia sicuramente brillante e complessa, essa si perde con il declino e la dispersione della cultura di questo popolo che è, in varie fasi e fin dall’inizio, integrato e fuso con quello romano.  Il sistema sociale e politico Etrusco è caratterizzato da una confederazione di Città-Stato, ognuna delle quali è governata da un Re-Sacerdote: il Lucumone, custode anche dell’Etrusca Disciplina(5). Teofrasto a proposito dei medicamenti degli Etruschi afferma che già Eschilo nel VI sec. a.C. definiva “l'Etruria un paese ricco di farmaci” (una farmacologia sostanzialmente fitoterapica).

Dall’epoca omerica, poi, ci pervengono molte testimonianze sull’impiego di rimedi dagli effetti magico-terapeutici come, ad esempio, il famoso nepenthes (vino drogato  con loto,  giusquiamo, oppio, mandragora  ed altro, con proprietà sedative, calmanti e narcotiche) che Elena offre allo sconsolato Telemaco in cerca di notizie di suo padre(6).

Più approfonditamente, il nepente della farmacopea omerica è il rimedio sapiente(7) realizzato da chi è dotato per natura di sapienza e abilità artigianale, valori ispiratori della medicina greca delle origini. La sapienza, conoscenza assoluta e completa ricevuta in divinazione per folgorazione dall’estasi apollinea, consente con un solo sguardo di conoscere, comprendere e curare. Alla medicina sapienziale acquisita per natura si affianca, poi, quella comunemente acquisita, la medicina per cultura dall’insegnamento di un maestro ed esercitata avvalendosi del dialogo col paziente.

La tradizione post-omerica, inoltre, ritiene i figli naturali di Asclepio, Macàone (allievo di Chirone, definito da Omero il migliore dei Centauri) e Podalirio, rispettivamente archetipi dei guaritori, iatròi o iatères, delle malattie interne o febbri e delle malattie esterne o ferite. I guaritori discendenti non sono divini ma uomini superiori pari agli dei che danno la guarigione, spesso miracolosa, avvalendosi di preghiere, incantesimi, sacrifici e pharmakòi evocanti l’intervento divino e phàrmaka, farmaci o veleni a seconda della dose, prodotti e confezionati da donne manipolatrici.

Da Le opere e i giorni di Esiodo, poi, apprendiamo sia che i figli di Apollo Igea (legittima) ed Asclepio (illegittimo) curano rispettivamente la salute (prevenzione) e la malattia (terapia) sia che la mitica Pandora, donna avvenente forgiata da Efesto per volere di Zeus, possiede  tutti i doni (buoni e cattivi) e li elargisce: dal suo vaso, dunque, escono a seconda dei capricci degli dei anche le malattie, demoni maligni mutuati dalla cultura medica mesopotamica.

Dalla mitologia greca emerge il senso ambiguo del farmaco che il mondo greco “istituzionalizza” nel mito di Asclepio, divinità che apprende dal saggio Centauro Chirone gran parte dell’arte medica e che acquisisce, grazie a Perseo, un rimedio infallibile per liberarsi dei nemici e resuscitare gli amici: con il liquido sgorgato da un lato del collo di Medusa Asclepio dà la morte mentre con quello sgorgato dal lato opposto dà la vita agli amici (pare abbia resuscitato tanti morti da svuotare l’Ade).

Dal VI secolo a.C. si impone stabilmente nel mondo classico, raggiungendo la piena egemonia nel IV secolo, il culto di Asclepio di cui nella città di Epidauro(8) in Argolide vi è il tempio della salute più importante(9). Asclepio è rappresentato il più delle volte come un uomo maturo, con barba, con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata sulla testa di un serpente; accucciato ai suoi piedi, un cane. Cani e serpenti, con le civette oracolari e le capre nutrici, sono animali sacri: la loro lingua è ritenuta capace di lenire e guarire le piaghe. Nei portici antistanti il tempio ha sede l’àbaton, luogo di degenza e di dormiveglia, dove i malati trascorrono le notti immersi nel sonno incubatorio propiziato da Hypnos, semidio dell’ipnosi, o estasiati dalle visioni oniriche propiziate da Oneiros, semidio dei sogni. L’incubazione è la pratica di chi dorme per avere responsi. Il malato incubante ad Asclepio, è colui che dorme nell’asclepieo per destarsi dal sonno miracolosamente guarito o, in via subordinata, per ricevere un comandamento o un consiglio su come comportarsi per guarire(10). Nel recinto c’è anche la thòlos, edicola circolare dove sta il pozzo sacro, dimora dei sacri serpenti, e dove i malati lasciano le tavolette votive con sopra descritte le loro storie, la sintomatologia ed i trattamenti terapeutici ricevuti. Fuori dal recinto completano l’insieme monumentale le aggiunte edilizie, cronologicamente tarde, del ginnasio per gli esercizi fisici, delle terme per i bagni, dell’odèion per le audizioni musicali con finalità terapeutiche. Il katagòghion, ostello con più stanze ubicate sotto i portici ed intorno ai cortili, dà ospitalità a quanti giungono in pellegrinaggio al santuario per cercarvi la guarigione. I pellegrini sono ricevuti da un personale di accoglienza composto da portieri, detentori delle chiavi del tempio, e da scribi che registrano le offerte di ciascun pellegrino di cui tengono conto delle condizioni economiche. Il tempio è aperto a tutti ma ai ricchi sono imposte sovratasse denominate iatrà (iatròs è uno dei nomi dati ad Asclepio e Platone attribuisce al medico Eurissimaco l’affermazione che il suo predecessore Asclepio è il fondatore dell’arte(11)

Il personale di assistenza è vario: i sorveglianti che vegliano sui dormienti, i pirofori che li illuminano, gli asclepiadi che sovrintendono ai sacrifici, ascoltano i racconti dei sogni, trasmettono i responsi del dio guaritore. A capo di tutti c’è lo ierofante, supremo interprete del sacro, massima sapienza-potenza esistente nel tempio. Il rituale d’accesso consiste nei preliminari di purificazione del malato con lavaggio e breve digiuno e, successivamente, di un sacrificio ad Asclepio: un gallo(12) o altri animali (capro, bue, giovenca, ecc.): chi più ha, più dà. Dopo l’offerta, sempre accompagnata da un’invocazione, il malato si distende su un giaciglio, talora fatto con la pelle degli stessi animali sacrificati: dorme e sogna; talvolta si desta miracolato, più spesso disponibile a confidarsi con l’asclepiade per avere da lui una sorta di prognosi e terapia(13). Dai trattamenti prescritti dagli asclepiadi  viene a costituirsi un’esperienza curativa che si consolida in protocolli di terapia  statisticamente  efficaci(14).  Tuttavia,  nonostante  la complessità  ricostruttiva storica,  è ormai dimostrato che la formazione della medicina e della farmacia a crescenti contenuti tecnici non può esser solo riconducibile ad una sorta di filiazione da quelle esercitate nei templi della casta sacerdotale di Asclepio attraverso un processo di desacralizzazione con progressiva laicizzazione(15).

Dunque, una medicina iatrèica, capace di guarire con i rimedi, affianca nella Grecia classica la medicina ieratica dei templi.

Tra le prime scuole che si sviluppano in Grecia e nella Magna Grecia importantissima è la Scuola Pitagorica. Pitagora (ca. 570-505 a.C.), grande matematico, porta nella scienza naturale, ancora non definibile medicina, la teoria dei numeri secondo cui alcuni di essi hanno significati precisi e, fra questi, i più importanti sono il 4 e il 7. Il 7 ha sempre avuto un significato magico: nella Bibbia, per esempio,  un numero infinito è indicato come 70 volte 7. Tra l’altro, il 7 per 4 dà 28, cioè il mese lunare della mestruazione, e 7 per 40 dà 280, cioè la durata in giorni della gravidanza. Sempre per la connotazione magica del 7 si dice che è meglio che il bambino nasca al 7° mese piuttosto che all’8°.

Nel V secolo a.C. nell’isola di Coo o Cos(16), nel Dodecanneso, dove si sviluppa la Scuola Razionale, la cui base è la negazione dell’intervento divino nelle malattie, vive Ippocrate (460-370 a.C), padre della medicina, membro della casta degli Asclepiadi (medici discendenti dal mitico dio Asclepio): la tècne nella prognosi e nella terapia è contrapposta o sovrapposta alla medicina sapienzale degli asclepiadi impegnati nella preghiera propiziatoria, nella profezia, nella guarigione miracolosa. La medicina ippocratica polemizza non solo contro le pratiche magiche e superstiziose ma anche “contro le pretese dei filosofi naturalisti, alla maniera di Empedocle, di dettar legge, sulla base dei loro generalissimi postulati, in un campo come la comprensione e la cura dei processi organici che, invece, richiede complesse competenze ed un’esperienza diretta e specifica(17), (18)”. Il rapporto tra medico e malato è fisico (percezione pentasensoriale diagnostica) e storico (rilievo anamnesico e prognostico) e la malattia, pur non essendo ancora entità nosologica bensì esperienza esistenziale tra la vita e la morte, genera un fenomeno antropologico su cui si baseranno l’introspezione e la conoscenza più propriamente fisiopatologiche. Altra novità fondamentale introdotta dalla dottrina di Ippocrate è il fatto di considerare le patologie come fenomeni generali per l’organismo e non relativi ad un singolo organo. La concezione di Ippocrate si rifà a quella di Talete ed in parte anche a quella di Alcmeone di Crotone quando dice che l’uomo è il microcosmo ed il corpo è formato dai 4 elementi fondamentali: aria, fuoco, terra ed acqua.

La figura del medico è per Ippocrate, infine, l’unione del perfetto uomo con il perfetto studioso: calma nell’azione, serenità nel giudizio, moralità, onestà, amore per la propria arte e per il malato sono i cardini della personalità del medico così come è concepito da Ippocrate. Ogni interesse personale passa in secondo piano.  Non è certo un essere superiore ed infallibile come i sacerdoti degli antichi templi ma deve sopperire alla sua fallibilità con il massimo dell’impegno e della diligenza in modo da commettere solo errori di lieve entità. Deve, inoltre, essere filosofo ma non al punto da farsi distogliere dalla vera scienza che si poggia su solide basi pratiche; nella cultura ippocratica, tuttavia, la filosofia rimarrà elemento fondamentale della preparazione generale del medico, come testimonia Galeno e come ritroveremo per secoli negli ordinamenti delle Scuole mediche antiche. Il suo abito, infine, deve essere decoroso ed il suo aspetto denotare salute.

Nel Giuramento, poi, Ippocrate delinea il medico e la medicina nell’ordine morale, ethos, che deve considerare la vita e il malato come valori ed afferma: “Non darò a nessuno farmaci mortali, neppure se richiesto, ne mai suggerirò di prenderne. Ugualmente non darò a donne rimedi abortivi(19)”.  Ippocrate, dunque, lascia una teoria medica che connette l’osservazione esatta scientifica e l’esperienza con un’etica alta ed umana in una visione che dimostra l’utilità derivante dal bene compiuto dal medico tramandata anche in campo cristiano in diversi modi nelle epoche storiche nei documenti ecclesiastici papali, in opere teologiche e testi di medicina pastorale(20). Esistono, infatti, relazioni tra il Corpus ippocraticum e la teologia per il fatto che le opere ippocratiche non solo sono un provato sistema di cura ma hanno anche considerevoli comunanze con l’immagine umana delle persone sane e ammalate alla base della concezione cristiana. Inoltre, Ippocrate: “sebbene fosse stato pagano, potrebbe essere ancora oggi, appena duemila anni dopo l'annunzio del Vangelo di Cristo, un esempio anche per presunti medici cristiani(21)”; egli, anticipando una medicina integrale, esprime la sua  visione universale e caratterizza il vero medico  che unisce nella sua concezione fondamentale gli elementi biologici, antropologici, medico-umani, sociali ed etico-metafisici(22). Va, di più ancora, posto in evidenza che il testo ippocratico lascia intravedere l’insegnamento stesso di Cristo (23).

C’è una continuità indiscutibile, in particolare, tra il contenuto del Giuramento e quello della morale cristiana per il comune impegno nella promozione e nella difesa della vita dal suo concepimento al suo naturale tramonto(24). Sono, infatti, quattro, le linee portanti del Giuramento di Ippocrate: un profondo rispetto della natura in generale; una concezione unitaria ed integrale dell’essere umano; un rigoroso rapporto tra etica personale ed etica professionale; una visione massimamente partecipe dell’esercizio dell’arte medica. C’è, quindi, nel Giuramento una chiara propedeutica che introduce alla visione cristiana della vita, che sottoscrive, pur arricchendoli, tutti e quattro i presupposti ippocratici. Ma è soprattutto nella difesa piena e totale della vita che la posizione del grande medico greco si fa predispositiva dell'accettazione della nozione cristiana di vita, quale partecipazione della vita stessa di Dio, proiettata nell'eternità. Ed al riguardo, vi è un punto chiave nel quale il pensiero di Ippocrate e quello cristiano coincidono: è proprio nell’esclusione di ogni possibilità di discriminazione nell’interno della nozione di vita. Ippocrate assume la promozione e la difesa della vita come criterio e indirizzo nell’esercizio della propria professione e come metro della sua onestà e correttezza di medico. Egli sa molto bene che accettare possibili distinzioni, prevedere eccezioni a questo principio, equivale a renderlo fragile e vulnerabile. E ne è convinto a tal punto che il suo Giuramento approda ad una visione religiosa della vita. (…)

Ci sono, poi, altri aspetti che trovano nell’etica ippocratica quasi un risvolto cristiano, come, in primo luogo, la necessità che il medico nell'esercizio della sua professione sia a servizio del malato, non che lo serva per calcolo interessato.

Un’attenta analisi del Giuramento consente di pervenire ad una conclusione perentoria: poche categorie professionali possono concordare sui principi essenziali della propria attività come la categoria di coloro che sono al servizio della salute, cioè degli operatori sanitari. Identificando con le rette perpendicolari di una croce la visione cristiana del mondo e il suo incontro-confronto con la visione o le visioni non cristiane, si può immaginare il servizio alla salute e, quindi, alla vita, come il punto esatto in cui le due perpendicolari si incontrano. Certamente, anche in tale campo, la novità del Cristianesimo è rappresentata dalla dottrina e dalla prassi sulla valorizzazione della sofferenza quando essa, nonostante ogni sforzo della scienza e di qualsivoglia altro mezzo lecito, resti invincibile. Ma, in realtà, poche verità sono altrettanto razionali come la valorizzazione della sofferenza, che fa veramente appello a tutte le risorse dell’uomo consentendone la più alta e nobile espressione.

Non è vero, quindi, che soltanto la fede può dare la forza di accettare e di valorizzare il dolore. Essa può confermarsi decisiva al riguardo, ma il suo sostegno può mettere radici nella intelligenza e nella ragione umana che è anch'essa un dono di Dio. Nel cristianesimo primitivo le idee principali elleniche ricavano il loro fondamento e carattere cristiano dal fatto che nel preambolo del giuramento di Ippocrate, Apollo soter è sostituito da Christus medicus. A causa di una visione diagnostico-differenziale delle vere cause delle malattie, il naturalismo ellenico ed il personalismo semitico sono collegati nel cristianesimo primitivo(25). Sotto la forza integrante dell’autorità del modello del “Christus medicus”, senza dubbio attribuito  al  pensiero  di Ippocrate,  si  sviluppa  il senso di  un’etica  responsabile  del medico  mentre  in  seguito  vi sono formulazioni di giuramenti medici con preamboli di carattere monoteista e formule di conclusioni con esplicito riferimento all’istanza trascendente, a Dio, davanti al quale è prestato tale giuramento(26).

Il dogmatismo post-ippocratico, poi, da una parte riconosce la validità delle teorie e del pensiero di Ippocrate e dall’altra è, invece, il ritorno ad una concezione di sacralità nella medicina anche se l’elemento divino è sostituito da quello umano. La scuola dogmatica vede tra i suoi esponenti anche il filosofo Platone che in due sue opere, Timeo e Simposio, traccia una visione d’insieme sul livello della medicina del tempo. Celebri sono: la sua citazione dell’allocazione del cuore da parte degli dei nel corpo umano “nel posto di guardia” protetto come un cuscino dal polmone poroso per ricevere il soffio del respiro o il rinfresco di una bevanda; la sua tripartizione anatomica delle parti solide in cervello (sfondo alla tetralogia psicologica dei temperamenti sanguigno, bilioso, flemmatico e melanconico) e sede dell’anima che con i lacci midollari governa come due destrieri l’anima buona con sede nel cuore e l’anima cattiva con sede nel fegato e nel basso ventre.

Sempre alla fine del V secolo a. C. il sofista Antifonte apre nell’agorà di Corinto una specie di consultorio dove con il solo uso della parola cura a pagamento le malattie dell’anima secondo un metodo definito techne alipias, ovvero arte o tecnica per alleviare il dolore psichico.

Ottant’anni dopo Ippocrate, Aristotele (384/3-322/1 a.C.), figlio del medico Nicomaco, sviluppa nell’Enciclopedia delle Scienze  la sua filosofia naturale e nelle  altre opere  il pensiero medico a tal punto che la sua filosofia insieme a quella di Platone influenzerà a fondo per molti secoli la medicina occidentale stimolandone, ma anche frenandone, il progresso con la sua teoria sulla “generazione spontanea”. Aristotele è il più grande scienziato e biologo dell’antichità che contribuisce enormemente alla scienza naturale ma anche alla medicina elaborando un sistema fisiologico incentrato sul cuore, l’organo più importante perché, quando si ferma, l’uomo muore, in esso arde una fiamma vitale mantenuta da uno spirito detto pneuma o spirito vitale che dà calore. Aristotele, inoltre, nei suoi studi di embriologia nota che il cuore comincia a battere nelle fasi iniziali dello sviluppo dell'organismo: primum oriens, ultimum moriens.

Contemporaneamente alla Scuola empirica, in Alessandria si diffonde la Scuola metodica, che è quella che ha maggior successo. Quest’ultima si rifà non alla filosofia dei quattro elementi ma alla filosofia rivale: la teoria atomistica di Democrito (V-IV sec a.C.). Secondo tale scuola è necessario valutare le cose così come appaiono nel mondo reale.

Altro caposcuola è Erofilo (fine IV secolo a.C.) che dimostra che è il cervello e non il cuore la sede delle sensazioni.

Nel mondo romano arcaico, poi, la medicina autoctona, intersecandosi con una medicina magico-popolare di ascendenza etrusco-latina, non è praticata se non a livello domestico dal “pater familias” che applica semplici rimedi tradizionali in qualità di curante polifunzionale della famiglia, dei servi e del bestiame, non dimentico di invocare i sacri patrii lari e di raccomandarsi ai penati.

Nella medicina autoctona, di antica origine italica, più  che di medici veri e propri si può parlare di persone (curatores) in grado di prestare occasionalmente una sorta di servizio sanitario in condizioni di straordinaria emergenza come, ad esempio, guerre o pestilenze. Due sono le espressioni della medicina in questa fase: quella empirica e quella sacerdotale.

La prima si basa su nozioni desunte dall’esperienza (erbe medicamentose, infusi, decotti, ecc.) unite a elementi di magia ed ha come massimo esponente Catone il censore (234 a.C.-149 a.C.) che, pur non essendo medico, è famoso per la conoscenza di parecchi medicinali e per la pratica con apparecchi per ridurre lussazioni e fratture.

La seconda è testimoniata dalla presenza di divinità, ognuna delle quali protegge una parte del corpo o è preposta a singoli aspetti (patologici e non) della vita fisiologica (il più importante tempio dedicato al culto della dea Salus si trova sul Quirinale).

Dal III secolo a.C. nascono luoghi pubblici dedicati all’assistenza ai malati: una delle prime forme sono i templi o asclepei e le medicatrinae, cioè ambulatori annessi alla casa del medico. Funzionano, invece, come ospedali i valetudinaria: grandi costruzioni per lo più private, non di derivazione greca ma istituzione prettamente romana, presenti presso grandi aziende agricole, palestre e, soprattutto, accampamenti; non aperti al cittadino comune, ma riservati alle cure delle sole persone necessarie al buon funzionamento dello Stato: servi delle aziende, atleti e militari.

In epoca romana anche molte indicazioni di erbe salutari derivano dalla mitologia e dall’intervento benefico degli dei: Apollo è il conoscitore per eccellenza di tutte le erbe ed i rimedi, come ci attesta Ovidio (Metamorfosi, L.I., v. 32): “Inventum Medicina meum est, opiferque per orbem Dicor, et herbarum subiecta potentia nobis (La Medicina è mia invenzione e sono stimato porgitore d’aiuto per tutta la terra e sottoposta a noi è la virtù delle erbe...); Minerva fa conoscere l’uso della camomilla (Matricaria chamomilla L.), dal greco Kamai (piccola, umile) e dal latino matrix (matrice), a significare proprietà elettive sull’utero; Mercurio introduce l’uso della mercorella (Mercurialis annua L.), erba detta anche “merda del diavolo” per la sua diffusione infestante, usata per arrestare la secrezione lattea;  Cerere corre per i campi alla ricerca della figliuola Proserpina e si cinge il capo con fiori che le conciliano il sonno. I bei fiori sono del papavero (Papaver album L.) dalle cui capsule immature si estrae l’oppio”, da cui la medicina ha tratto enormi vantaggi. 

Ad opera  di Plutarco  si ha notizia, poi,  che nel  mondo  romano  esistono “collegia opificum”, organismi corporativi o Collegi(27)  interessanti  manodopera specializzata  in vari settori  già ai tempi della monarchia, dotati  anche di significativi elementi di sacralità essendo governati e protetti da insigni dei (Minerva, Ercole, Mercurio, per esempio).

Dal Libro del Siracide, intanto, si legge che “il Signore ha creato medicamenti dalla terra (…) Dio ha dato agli uomini la scienza perché potessero gloriarsi delle sue meraviglie. Con esse il medico cura ed elimina il dolore e il farmacista prepara le miscele. (…) Il medico - il Signore ha creato anche lui - non stia lontano da te (…). Ci sono casi in cui il successo è nelle loro mani. Anch’essi pregano il Signore perché li guidi felicemente ad alleviare la malattia e a risanarla, perché il malato ritorni alla vita(28).

Poi “il Lógos divenne carne(29)”.

Al tempo della vita di Gesù la Chiesa, dunque, è nella storia e per la storia, pur venendo da altrove e andando altrove: una commistione fra storia ed eternità che la rende significativa non meno che nei duemila successivi anni della sua vicenda(30).

La nuova religione sorprende l’Occidente antico anche per la visione della storia umana: il tempo dell’uomo non è più solo suo ma è tempo di Dio con l’uomo: è tempo di Dio per la manifestazione di Se Stesso attraverso la vicenda umana(31).

A partire dalla Resurrezione di Gesù, inoltre, il tempo storico del mondo si orienta secondo un “prima” e un “dopo” che  non hanno  altre repliche, secondo  un tempo di preparazione e un tempo di compimento che sono unici nell’eternità(32).

Il Messia, inoltre, non è solo un “Medico delle anime” ma, dopo le Scritture, egli si impone anche come Salvatore del corpo e della malattia, evento generato dagli Inferi. Conseguentemente tutto il cristianesimo, sin dalle origini, influisce positivamente sulla pratica del curare(33).

Il mistero stesso della redenzione del mondo, in effetti, “è in modo sorprendente radicato nella sofferenza, e questa, a sua volta, trova in esso il suo supremo e più sicuro punto di riferimento(34)”.

Secondo Matteo, Cristo raduna prima della sua Ascensione tutti i suoi Discepoli per conferire loro il potere (“dedit illis potestatem”) di porre rimedio ai dolori inflitti dal demonio assicurando l’antagonismo ai suoi spiriti ripugnanti (“spirituum immundorum”). In effetti numerosi convertitori sono ricordati per aver ristabilito la salute perduta.

Anche l’evangelista Luca, a dire del suo contemporaneo San Paolo, era un “diletto medico” emulo di Cristo nel risanare il fisico quanto lo spirito. Luca nel terzo Vangelo dà risalto all’operato di Gesù guaritore, come nel caso di “una donna che già da dodici anni soffriva di un flusso di sangue e che aveva speso tutto il suo avere nei medici” (8, 43-44) e, inoltre, sottolinea la necessità di assistere i malati ed i feriti, come nella celebre parabola del buon Samaritano (10:25-37) “Un dottore della legge per mettere alla prova Gesù gli chiese: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte.

Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione (35). Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso»”.

La parabola del buon Samaritano appartiene in modo organico al Vangelo della sofferenza. “Mediante questa parabola Cristo volle dare risposta alla domanda: « chi è il mio prossimo? »(90).

Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.

Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso»”.

Infatti, fra i tre passanti lungo la via da Gerusalemme a Gerico, dove giaceva  per terra mezzo morto un uomo rapinato e ferito dai briganti, proprio il Samaritano dimostrò di essere davvero il « prossimo » per quell'infelice: « prossimo » significa anche colui che adempì il comandamento dell'amore del prossimo. Altri due uomini percorrevano la stessa strada: uno era sacerdote, e l'altro levita, ma ciascuno « lo vide e passò oltre ». Invece, il Samaritano « lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, ... gli fasciò le ferite », poi « lo portò a una locanda e si prese cura di lui »(91). Ed all'atto di partire, affidò sollecitamente la cura dell'uomo sofferente all'albergatore, impegnandosi a sostenere le spese occorrenti.

La parabola del buon Samaritano appartiene al Vangelo della sofferenza. Essa indica, infatti, quale debba essere il rapporto di ciascuno di noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito « passare oltre » con indifferenza, ma dobbiamo « fermarci » accanto a lui. Buon Samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. Questa è come l'aprirsi di una certa interiore disposizione del cuore, che ha anche la sua espressione emotiva.

Buon Samaritano è ogni uomo sensibile alla sofferenza altrui, l'uomo che « si commuove » per la disgrazia del prossimo.

Se Cristo, conoscitore dell'interno dell'uomo, sottolinea questa commozione, vuol dire che essa è importante per tutto il nostro atteggiamento di fronte alla sofferenza altrui. Bisogna, dunque, coltivare in sé questa sensibilità del cuore, che testimonia la compassione verso un sofferente. A volte questa compassione rimane

l'unica o principale espressione del nostro amore e della nostra solidarietà con l'uomo sofferente.

Tuttavia, il buon Samaritano della parabola di Cristo non si ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo alle azioni che mirano a portare aiuto all'uomo ferito. Buon Samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia. Aiuto, in quanto possibile, efficace. In esso egli mette il suo cuore, ma non risparmia neanche i mezzi materiali. Si può dire che dà se stesso, il suo proprio « io », aprendo quest'« io » all'altro. Tocchiamo qui uno dei punti-chiave di tutta l'antropologia cristiana. L'uomo non può « ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé »(92). Buon Samaritano è l'uomo capace appunto di tale dono di sé(36).

La parabola del buon Samaritano, che - come si è detto - appartiene al Vangelo della sofferenza, cammina insieme con esso lungo la storia della Chiesa e del cristianesimo, lungo la storia dell'uomo e dell'umanità. Essa testimonia che la rivelazione da parte di Cristo del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un atteggiamento di passività. E' tutto il contrario. Il Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è soprattutto attivo. In questo modo, egli realizza il programma messianico della sua missione, secondo le parole del profeta: « Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri  la liberazione e ai ciechi la vista;  per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare  un anno di graziadel Signore »(93). Cristo compie in modo sovrabbondante questo programma messianico della sua missione: egli passa « beneficando (94), ed il bene  delle sue opere  ha assunto  rilievo  soprattutto di fronte all'umana sofferenza. La parabola del buon Samaritano è in profonda armonia col comportamento di Cristo stesso.

Questa parabola entrerà, infine, per il suo contenuto essenziale, in quelle sconvolgenti parole sul giudizio finale, che Matteo ha annotato nel suo Vangelo: « Venite, benedetti del Padre mio; ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo.

Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi »(95). Ai giusti che chiedono quando mai abbiano fatta proprio a lui tutto questo, il Figlio dell'Uomo risponderà: « In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (96).

La sentenza opposta toccherà a coloro che si sono comportati diversamente: « Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me »(97).

Si potrebbe certamente allungare l'elenco delle sofferenze che hanno incontrato la sensibilità umana, la compassione, l'aiuto, oppure che non le hanno incontrate. La prima e la seconda parte della dichiarazione di Cristo sul giudizio finale indicano senza ambiguità come siano essenziali, nella prospettiva della vita eterna di ogni uomo, il « fermarsi », come fece il buon Samaritano, accanto alla sofferenza del suo prossimo, l'aver « compassione » di essa, ed infine il dare aiuto. Nel programma messianico di Cristo, che è insieme il programma del Regno di Dio, la sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella « civiltà dell'amore ».

In questo amore il significato salvifico della sofferenza si realizza fino in fondo e raggiunge la sua dimensione definitiva. Le parole di Cristo sul giudizio finale permettono di comprendere ciò in tutta la semplicità e perspicacia del Vangelo.

Queste parole sull'amore, sugli atti di amore, collegati con l'umana sofferenza, ci permettono ancora una volta di scoprire, alla base di tutte le sofferenze umane, la stessa sofferenza redentrice di Cristo. Cristo dice: « L'avete fatto a me ».

Egli stesso è colui che in ognuno sperimenta l'amore; egli stesso è colui che riceve aiuto, quando questo viene reso ad ogni sofferente senza eccezione. Egli stesso è presente in questo sofferente, poiché la sua sofferenza salvifica è stata aperta una volta per sempre ad ogni sofferenza umana. E tutti coloro che soffrono sono stati chiamati una volta per sempre a diventare partecipi « delle sofferenze di Cristo »(98).

Così come tutti sono stati chiamati a « completare » con la propria sofferenza « quello che manca ai patimenti di Cristo» (99). Cristo allo stesso tempo ha insegnato all'uomo a far del bene con la sofferenza ed a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza(37).

L’evangelista Matteo, inoltre, con le parole di Cristo “Perchè io ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui ignudo e mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in carcere e mi veniste a trovare” (25, 35-37) pone le premesse delle sette opere di misericordia corporale (vesto, poto, cibo, redimo, tego, colligo, condo)(38).

I tempi eroici del Cristianesimo, dunque, corrispondono ad un declino della medicina salvifica. Il popolo più che mai percepisce o è più che mai persuaso che la malattia capitola solo dinanzi a forze soprannaturali. D’altro canto prevale la dottrina, conforme a quella degli Evangelisti, che considera la sofferenza come una presenza divina e la concezione della cura dell’infermo come charitas.

Proprio  ai sofferenti, che sono deboli, il cristianesimo chiede che diventino  una sorgente di forza per la Chiesa e per l'umanità (…) nel terribile combattimento tra le forze del bene e del male(39), per vincere la loro condizione “in unione con la Croce di Cristo(40)!

Cristo allo stesso tempo ha insegnato all’uomo a fare del bene con la sofferenza e a fare del bene a chi soffre(41) e la chiesa, sull’esempio di Cristo, nel corso dei secoli, avverte fortemente “il servizio ai chi soffre(41) e la chiesa, sull’esempio di Cristo, nel corso dei secoli, avverte fortemente “il servizio ai malati come parte integrante della sua missione(42)”; “chiamata e mandata a servire l’uomo, la chiesa lo incontra in modo particolare nella via del dolore, e questa è “una delle vie più importanti(43)”. Ma non solo per far del bene, anche per riceverne! La sofferenza nasconde e svela una vocazione e una missione di amore, per quanto difficile e misteriosa:completa la passione di Cristoe partecipa della sua redenzione fino a condurre alla gioia(44)”.

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(1) Grandioso prologo innico del quarto Vangelo giovanneo.

(2)Le denominazioni di Apotheke in Germania, Apotheek in Olanda, Apotek in Scandinavia e in Francia Apothicaire per indicare la Farmacia sono tutti vocaboli di origine greca. Dall’antica Grecia sono correntemente usati i verbi apothkw (apoteko: sciolgo, liquefaccio, fondo) e apotizhmi (apotizemi: ripongo, conservo, metto da parte). La maggior parte degli studiosi propende per la prima etimologia. Inoltre, dal greco apothkh (apoteke: ripostiglio della casa dove si conservano provviste e soprattutto vini) si ha il latino sostantivo apotheca con lo stesso significato. Dal latino apotheca deriva in italiano il termine bottega con il significato di vano a livello stradale in cui si vendono merci al dettaglio. Il farmacista presso i romani è definito genericamente pharmacola, la farmacia pharmacopolio mentre i farmaci pharmaceutici. Plauto nelle sue commedie chiama il farmacista anche myrapola e myrapolium la farmacia. Plinio, invece, usa il termine di seplasia e di seplsarii per i farmacisti. Seplasium significa rimedio (a Capua c’è una piazza Seplasia riferita al luogo dove si svolgeva un tempo il mercato delle droghe). I farmacisti specializzati in unguenti sono detti unguentarii, i mercanti di profumi aromatarii, i commercianti di colori e profumi pigmentarii e, infine, i commercianti di incenso sono i thurarii e di droghe i myrobecharii. In Spagna, in catalano, l’apothecari è “qui prepare e ven las medicinas” mentre la botiga è “casa on es venen moltes coses” e per apothecarìa si intende “la botiga de apothecari”. In Sardegna con gli spagnoli arrivano i termini potecàriu e ipotecaria il cui utilizzo in talune limitate zone resiste nella parlata in vernacolo sino ai tempi attuali.

(3) Che in riva al fiume Tigri aveva tentato di divorargli il piede.

(4) Del padre di Tobia accecato nel sonno dagli escrementi di passeri.

(5) Nel 1000 a.C. Tarconte, fondatore della città di Tarquinia, vede apparire da dietro una zolla di terra un giovane di nome Tagete che gli rivela l’Etrusca Disciplina che racchiude tutto lo scibile culturale, tecnico, sociale e religioso (dunque, anche tutte le nozioni riguardanti la prevenzione ed il trattamento medico-farmaceutico) che caratterizzerà e distinguerà la civiltà Etrusca in ogni momento della sua esistenza.

(6) Odissea, libro IV, vv. 219-234.

(7) Omero, Odissea, libro IV, vv. 219-232.

(8) Accreditata città natale di Asclepio da Pausania.

(9) Il santuario cinto da mura sorge fuori città, collegato da una strada fiancheggiata da statue. Il tempio propriamente detto, opera dell’architetto Teodoto, è in pietra calcarea, con la cella al centro contornata da colonne doriche, decorata da marmi policromi e contenente la statua crisoelefantina, opera dello scultore Trasimede.

(10) Come il civis romanus incubante a Giove Capitolino che dorme sull’omonimo colle per avere indirizzo di comportamento politico.

(11) Platone, Simposio, XII.

(12) Come Platone fa dire a Socrate (Platone, Fedone, LXVI).

(13) Cosmacini Giorgio, L’Arte lunga, II. Il mondo classico, GLF Editori Laterza, 212 EL, Bari, 1997, pagg. 51-52.

(14) Cosmacini G., op. cit., pag 53.

(15) Cosmacini G., op. cit., pag 54.

 (16) Dal primo biografo di Ippocrate il vecchio Kos è mitizzato come ascendente di Asclepio di diciannovesima generazione  (Sorano, Genealogia e vita di Ippocrate, I o II secolo d.C.).

(17) Abs.: Cosmacini Gaudenzi Satolli, Dizionario di storia della salute, lemma Ippocratica medicina, Einaudi, Torino, 1996, pag. 309).

(18) Ma nel retroterra culturale di Ippocrate è presente il naturalismo filosofico dei pensatori di Mileto, nella vicina Ionia, vissuti tra il VII e il VI secolo: Talete, Anassimandro, Anassimene, primi indagatori del “principio” (arché) della natura. (Cosmacini G., op. cit, pag. 65).

(19) Nella Grecia del V-IV secolo a.C. “non risulta che fosse diffuso il rifiuto di somministrare abortivi e neppure veleni mortali nel caso che i malati incurabili ne facessero richiesta” (Vegetti, Ippocratica medicina, op. cit, pag.311).

(20) Nel nostro tempo Papa Pio XII ha definito nel 1954 il significato etico-medico delle opere ippocratiche: “… senza dubbio l'espressione più nobile di una coscienza professionale, che imponga innanzitutto di rispettare la vita e di sacrificarsi per gli ammalati e prenda in considerazione anche fattori personali: padronanza di sé, dignità, riservatezza. Sapeva presentare le norme morali ed inserirle in un vasto ed armonioso piano di studi, per cui faceva un regalo alla civiltà più magnifico che coloro che conquistarono gli imperi” (Pius XII, Zur Geschichte der Medizin. Ansprache am 19 Sep. 1954. In Pio XII, Discorsi ai medici. S. 349 f., Roma 1959). Sulla stessa linea Papa Paolo VI, metteva in guardia i medici considerando il progresso della medicina: “È ovvio che queste nuove questioni non debbano pregiudicare in nessun modo l'ideale medico che fa la medicina in una lunga tradizione di alcuni millenni, tramite il giuramento di Ippocrate, un difensore della vita. Una contaminazione di questo principio cardinale significherebbe un fatale passo indietro, che avrebbe delle consequenze disastrose. Questo voi potete valutare meglio di ognun'altro” (Paul VI, Das ärzt liche Ideal nicht beeinträchtingen. L'Osservat. Roman - deutsche Ausgabe - 19.1.1973). Papa Giovanni Paolo I scrisse con il titolo “Illustrissimi” delle lettere immaginarie a personaggi storici, compreso Ippocrate, che “fu un contemporaneo di Socrate e come lui un filosofo". Lo chiama “l'autore del famoso giuramento..., di un codice morale di un valore imperituro. I medici giurano in conformità a ciò a prescrivere la terapia adeguata per gli ammalati e di proteggerli da ingiustizie e soprattutto da svantaggi. Promettono solennemente di non interrompere nessuna gravidanza; s'impegnano ad andare solamente in una casa per aiutare gli ammalati, senza accettare delle tangenti. Inoltre giurano di mantenere sacrosanto il segreto professionale”. Con questo elenco degli impegni etico-medici Papa Giovanni Paolo I legittima l'integrazione della deontologia greca antica nel modo di pensare del medico cristiano (PAPST Johannes Paul I, Illustrissimi, Padova, 1976). Papa Giovanni Paolo II, ha menzionato nel 1978, in occasione dell'udienza all'Associazione dei Medici Cattolici Italiani, l'etica ippocratica mettendo in guardia di non far uso di medicinali che “contraddicono non solo l'etica cristiana ma ogni etica naturale, e che siano in contraddizione aperta con i doveri professionali espressi nel famoso giuramento del vecchio medico pagano” (PAPST Johannes Paul II, Wort und Weisung im Jahr 1979, Rom-Kevelaer 1979). Nel suo discorso, tenuto ai membri dell'Assemblea Generale dell'Unione Mondiale dei Medici, sulla manipolazione genetica, che riduce la vita umana ad un oggetto, Papa Giovanni Paolo II ammonisce: “Siano fedeli tutti i medici al giuramento di Ippocrate, che prestano in occasione della loro laurea” (PAPST Johannes Paul II, Der apostolische Stuhl 1983, S.1155, Rom-Köln 1983). Nel 1987 il Papa nel suo intervento ai partecipanti alla Conferenza Internazionale sull'"umanizzazione della medicina" esorta al servizio consapevole del proprio dovere per gli uomini: "Siate profondamente convinti di questa verità a causa della lunga tradizione, che risale alle intuizioni di Ippocrate stesso" (PAPST Johannes Paul II, Der apostolische Stuhl 1987, S.1699, Rom-Köln 1987). Nella nomina dei membri della Pontificia Accademia Pro Vita si fa cenno expressis verbis a Ippocrate, “proseguendo la tradizione ippocratica” (Pontificia Academia pro Vita, Roma 1994). Il 26 novembre 1994 il Papa Giovanni Paolo II menzionava nuovamente Ippocrate indicando il Codice Vaticano in cui il giuramento di Ippocrate fu scritto in forma di croce, un simbolo di concezione cristiana della natura umana, della santità ed anche del mistero di vita umana (Giovanni Paolo II, Discorso del Santo Padre, Conferenza Internazionale del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari e Plenaria della Pontificia Accademia Pro Vita, Roma 1994).

(21)Niedermeyer A., Compendium der Pastoralmedizin, Wien 1953).

(22)Niedermeyer A., Grundriß der Sozialhygiene, Wien - Bonn 1957 S. 30.

(23) Cardinale Fiorenzo Angelini, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari (1997).

(24) Una continuità riconosciuta apertamente anche dal Santo Padre Giovanni Paolo II che, nella enciclica Evangelium vitae, parla dell'”antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto di impegnarsi per il rispetto assoluto della vita umana e della sua sacralità”.

(25)Pedro Lain Entralgo, Heilkunde in geschichtlicher Entscheidung, Salzburg 1956.

(26)Gottfried Roth, Die monotheistischen Präambeln und Schlußformeln in den ärztlichen Eiden.Wissennschaft und Glaube 3 (1990) 115-121).

(27) L’etimologia latina della parola è “cum (ipsa) lege”: un isti­tuto costituito, quindi, da persone associate tra loro da una comune legge-statuto e che intendono perseguire scopi e finalità comuni.

(28) (38, 4-14), II secolo a. C.

(29) Giovanni, versetto 14.

(30) Bruno Forte, Arciv. di Chieti-Vasto, Diario di un Vescovo al Sinodo, Sole 24 Ore, anno 141, n.289, 23 ottobre 2005, pagg. 1-8.

(31) Massimo Ciceri, Piccolissimo sguardo sulla filosofia della storia antica e medievale.

(32) Ibid.

(33) Cosmacini Giorgio, L’Arte lunga, II. Il mondo classico, GLF Editori Laterza, 212 EL, Bari, 1997, pag. 117.

 (34) Lettera Apostolica Salvifici doloris di Giovanni Paolo II a vescovi, sacerdoti, famiglie religiose e fedeli della Chiesa cattolica sul senso cristiano della sofferenza umana, (VIII, Conclusione); San Pietro, nella memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes, 11 febbraio 1984, sesto di Pontificato.

(35) Pur essendo un “nemico”, perché membro della comunità che ha ostacolato Israele al ritorno dall’esilio e, in contrapposizione agli Ebrei, si crea una religione sincretista. (Cf. Esd 4).

(36) Lettera Apostolica Salvifici doloris del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ai vescovi, ai sacerdoti, alle famiglie religiose ed ai fedeli della Chiesa cattolica sul senso cristiano della sofferenza umana, (VII, 28); San Pietro, nella memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes, 11 febbraio 1984, sesto di Pontificato.

(37) Ibid. (VII, 30).

(38) Cosmacini G., op. cit., pag. 118.

(39) Riferimento concettuale abs. da: Lettera Apostolica Salvifici doloris del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ai vescovi, ai sacerdoti, alle famiglie religiose ed ai fedeli della Chiesa cattolica sul senso cristiano della sofferenza umana, (VIII, Conclusione); San Pietro, nella memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes, 11 febbraio 1984, sesto di Pontificato.

(40) Ibid., Lettera Apostolica Salvifici doloris del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, (VIII, Conclusione).

(41) Ibid., Lettera Apostolica Salvifici doloris del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, (SD, 30).

(42) Motu proprio di S.S. Giovanni Paolo II “Dolentium hominum”, di istituzione della Commissione Pontificia per la Pastorale degli Operatori Sanitari (ora, in virtù della costituzione apostolica Pastor bonus, Pontificio Consiglio).

(43) Ibid., Lettera Apostolica Salvifici doloris del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, (SD, 3).

(44) Mons. Ugo Donato Bianchi, La Pastorale della salute nella Chiesa italiana; Presentazione. Presidenza della Consulta Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana per la Pastorale nella Sanità, Città del Vaticano, 1989 (Consulta Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana Presidente della consulta Nazionale per la Pastorale della Sanità. 

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Abstract da:

Raimondo Villano “La cruna dell’ago: meridiani farmaceutici tra etica laica e morale cattolica” - 2^ edizione (patrocinio Chiron Foundation, Praxys dpt, Ed. Effegibi, pag. 393, settembre 2008).

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