Stampa

Segnala

Abstract :

A07. Elementi di protezione individuale e valutazione dei rischi e protezioni in farmacia

Elementi di protezione individuale e valutazione dei rischi in farmacia

L’accrescimento ed il mantenimento di un elevato livello di sicurezza, risultato del concorso di responsabilità, pianificazione ed anche documentazione, più che un costo superfluo ed improduttivo, costituiscono il complesso della qualità aziendale, supporto imprescindibile all’affidabilità ed all’efficacia professionali.

Nel tempo la sensibilità e gli approfondimenti in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro ad opera delle parti sociali e del Legislatore hanno generato una vera e propria nuova filosofia in materia di tutela della salute dei lavoratori che vede nel Farmacista Titolare il protagonista attivo della funzione di prevenzione che costituisce, di fatto, il perno intorno al quale deve ruotare l'organizzazione aziendale della prevenzione.

In qualità di responsabile di azienda e datore di lavoro, il titolare di farmacia può sia svolgere direttamente le funzioni di gestione della sicurezza, sia delegare in merito suoi collaboratori, sia affidare l’onere ad un professionista esperto esterno all’azienda.

Anche nel caso in cui il farmacista opti per queste due ultime scelte, non sembra priva di utilità una sia pur rapida lettura di queste pagine per la formazione di quote minime di orientamento e di consapevolezza almeno dell’entità e della natura delle problematiche sottese al tema della sicurezza.

Asse portante di questa nuova filosofia per responsabili d’azienda, datori di lavoro e lavoratori nel campo della sicurezza sui luoghi di lavoro può a buon diritto esser considerato il D.Lgs.626/94.

In questa sede ci si occupa summa capita delle principali specifiche tecniche e pratiche inerenti strumentazioni ed impianti di comune impiego, ambienti di lavoro, tecniche operative, prevenzione ed emergenze, ruolo ed obblighi del titolare di farmacia.

          

Personal computer

Essenzialmente gli aspetti da prendere in considerazione sotto il profilo della sicurezza sono l'ergonomia della postazione di lavoro ed il videoterminale.

Per quanto concerne l'ergonomia, è intuibile che condizioni di lavoro non ottimali, fatica e stress accentuano i pericoli per la salute psicofisica degli operatori; perciò da qualche anno si studiano i casi di “Repetive strain injuries” (Rsi), come le lesioni al tunnel carpale causate da un uso prolungato di tastiera e mouse che provocano irritazione ai nervi ed ai muscoli dell'avambraccio e della mano.

Per alleviare questi problemi, importanti case produttrici stanno proponendo tastiere e mouse ergonomicamente più evolute.

Si riportano di seguito alcune utili indicazioni per l’ottimizzazione dell’ergonomia della postazione di lavoro e del videoterminale:

Ø                  tastiera: il posto giusto è davanti a sé, su un piano più basso rispetto a quello della scrivania, sfruttando l’inclinazione garantita dagli appositi piedini. Attenzione a non piegare i polsi e a non appoggiare il palmo delle mani mentre si digita. Le spalle devono essere rilassate ed i gomiti vicino ai fianchi;

Ø                  mouse: per evitare problemi ai polsi è meglio tenerlo molto vicino alla tastiera, a destra o a sinistra;

Ø                  sedia: deve essere comoda ed in grado di sostenere la colonna vertebrale. L’altezza deve garantire un comodo appoggio dei piedi a terra e lo schienale regolabile (per seguire la curva naturale della parte inferiore della schiena). E’ vietato sedersi sul bordo ma appoggiare sulla seduta tutta la parte posteriore delle cosce. In questo modo il peso sarà ben distribuito;

Ø                  tempi: non bisogna stare per tempi lunghi di fronte al video: è buona regola osservare delle pause ogni ora e dedicarle ad un’altra attività che permetta di cambiare posizione. Utile anche rilassare la componente muscolare con semplici esercizi di stretching eseguibili anche alla postazione di lavoro;

Ø                  video: deve essere collocato davanti a sé ad un’altezza che consenta di tenere lo sguardo leggermente inclinato verso il basso a una distanza che permetta di leggere bene il testo.

Per i videoterminali, poi, Stati Uniti e Paesi scandinavi già da tempo ne hanno profondito gli aspetti relativi alla sicurezza ponendo in evidenza ed affrontando le tematiche legate alla “sindrome da videoterminale”.

I monitor sono messi sotto accusa per vari motivi, primi tra tutti per i campi elettromegnetici emessi e la qualità delle immagini.

Un monitor di buona qualità deve avere una diagonale di almeno 15 pollici, lo schermo piatto, un dot pitch di 0,28 o meno millimetri, la base basculante, generare immagini stabili con una frequenza verticale di refresh di almeno 72 MHz (questo valore assicura anche immagini prive di fastidiosi sfarfallii) alla risoluzione di 1.024 per 768 punti in modalità non interlacciata, avere i controlli digitali in posizione frontale, schermo trattato con metodo antistatico e antiriflesso e magari con i connettori BNC nonché rispondente alle specifiche Energy Star e Vesa (per ridurre i consumi elettrici), oltre che Mpr 2 e Tco 92.

Gli standard Mpr 2 e Tco 92 sono stati sviluppati in Svezia: il primo fissa i valori massimi dei campi elettromagnetici emessi dal monitor, mentre il Tco 92 prevede anche l'autospegnimento del display. Un buon monitor, inoltre, deve avere le certificazioni in regola con il rispetto di quelli che sono considerati gli standard industriali. Si deve perciò controllare se esso rispetta le specifiche Fcc di classe B sulle interferenze elettromagnetiche o le svedesi Mpr II, mentre per contenere i consumi elettrici deve essere conforme allo standard Energy Star.

Sono state promulgate, successivamente, le specifiche Tco 95 che coinvolgono la sicurezza, l'efficienza e l'ergonomia dell'intero pc. Per esempio, per un monitor vengono anche raccomandate le caratteristiche di luminosità, contrasto e regolazione dell'immagine, la posizione dei pulsanti di controllo o altri fattori che possono disturbare l'operatore. Alla ricerca di una maggiore efficienza, sicurezza ed ergonomia le norme Tco 95 fissano minuziosamente i requisiti di utilizzo della tastiera e dell'unità centrale del pc come l'emissione di rumore e calore, la sicurezza e i consumi elettrici, la lunghezza dei cavi. Con questo standard vengono anche valutati gli aspetti ecologici legati alla produzione dell'hardware come l'uso di sostanze nocive per l'ambiente e il successivo riciclo dei prodotti e degli imballaggi.

Ancora più avanzate, poi,  sono le raccomandazioni Tco 99 per l’Ecology Energy Emissions Ergonomics.

In Italia, è stato introdotto alcuni anni fa un più rigido ambito della tutela per il lavoro su videoterminale con la circolare 102/95 promulgata dal Ministero del Lavoro in applicazione delle nuove norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro di cui al decreto legislativo 626/94.

A tal proposito il legislatore all'articolo 51, dà alcune definizioni che costituiscono le linee guida per l'interpretazione dell'intero titolo VI.

A tal fine si intende per "lavoratore: il lavoratore che utilizza una attrezzatura munita di videoterminale in modo sistematico e abituale, per almeno quattro ore consecutive giornaliere, dedotte le pause di cui all'articolo 54, per tutta la settimana lavorativa".

Ne consegue che il citato articolo 54, sullo svolgimento quotidiano del lavoro, disciplina sempre nei confronti del suddetto lavoratore, il regime delle interruzioni dell'attività lavorativa.

In modo analogo il successivo articolo 55, sancisce la sorveglianza sanitaria solo per questi lavoratori.

Appare evidente che l'intenzione del legislatore è stata quella di assicurare specifiche misure preventive in favore di coloro per i quali sussistono rischi per la salute prevedibili in base ai dati scientifici disponibili.

Inoltre, la rigorosa interpretazione ministeriale del precetto definitorio appare ineccepibile ma la definizione legislativa (articolo 51, comma 1, punto c), mal si accorda con la definizione data dal legislatore comunitario nella direttiva n.90/270/Cee, del 29 maggio 1990.

All'articolo 2, lettera c), viene infatti definito "lavoratore: qualunque lavoratore ... che utilizzi regolarmente, durante un periodo significativo del suo lavoro normale, una attrezzatura munita di videoterminale".

Evidente appare il contrasto tra il precetto comunitario, che indica un vasto numero di soggetti da tutelare e quello nazionale che riduce la tutela ai soli lavoratori che potremmo definire "forzati del video".

Va considerato, inoltre, che l'interpretazione rigida mal si adatta con le misure generali di tutela dettate dall'articolo 3 del decreto, che attua il famoso articolo 2087 del Codice civile, da cui discende tutto il nostro "corpus" normativo di prevenzione.

Tra le misure generali di tutela troviamo esplicitato il "rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature... anche per attenuare il lavoro monotono e quello ripetitivo" (articolo 3, comma 1, lettera f).

Principio generale, ancorché non sanzionato penalmente, indicante la traccia da seguire per progettare i futuri posti di lavoro a misura d'uomo. La mancanza della definizione normativa di "attività al videoterminale" è la causa principale del contrasto.

La rigida interpretazione ministeriale rischia di far cassare dalla Corte di giustizia dell'Unione la definizione introdotta all'articolo 51, comma 1, punto e), del decreto legislativo 626/94.

La Procura della Repubblica presso la Pretura circondariale di Torino ha già sottoposto alla Corte di giustizia della Ue, in data 10 marzo 1995, "questione pregiudiziale" vertente sull'interpretazione della Direttiva 90/270/Cee (in particolare degli articoli 2, lettera c), 4,5,9, paragrafi 1 e 2).

La magistratura pone gli interrogativi seguenti:

a) quale significato assuma la formula di definizione usata dall'articolo 2, lettera c), della Direttiva 90/270/Cee, in rapporto alla determinazione del periodo minimo di utilizzazione del videoterminale e, in particolare, se siffatta formula escluda dal proprio ambito di riferimento situazioni quali quelle in cui il lavoratore utilizzi il Vdt per tutta la settimana lavorativa, ma non, o non per sempre, per almeno quattro ore consecutive giornaliere (e magari per un elevato numero di ore consecutive giornaliere) per tutta la settimana lavorativa tranne un giorno;

b) se l'articolo 9, paragrafi 1 e 2, della Direttive, sul controllo sanitario, prescriva l'esame periodico degli occhi e della vista per tutti i lavoratori, ovvero se lo limiti a categorie particolari di lavoratori (quali quelli idonei con prescrizioni o aventi una determinata età), e se l'articolo 9, paragrafo 2, prescriva l'esame oculistico anche all'esito dell'accertamento sanitario periodico, oltre che dell'accertamento sanitario preventivo;

c) se gli articoli 4 e 5 della Direttiva, sui requisiti dei posti di lavoro, impongano l'adeguamento alle prescrizioni minime stabilite, con riguardo a qualsiasi posto di lavoro, pur se non utilizzato da un lavoratore così come definito dall'articolo 2, lettera c), ovvero con esclusivo riguardo a quei posti di lavoro che risultino utilizzati da lavoratori così come definiti dall'articolo 2, lettera c).

Come si vede i problemi posti dalla magistratura sono di profonda portata e di ciò dovrà tenerne conto il legislatore.

Anche un cattivo funzionamento dei software (soprattutto di quello “pirata”), infine, può talora generare fastidi e disagi o persino danni alla vista per difetti di colore, nitidezza, per instabilità dell’immagine; può, inoltre, essere scorretta, per manipolazione non dell’autore, l’ergonomia dei processi operativi: ciò rischia di esporre l’operatore a percorsi mentali ed operativi non conformi e/o contorti con conseguente dispendio di energie e calo di resa produttiva, danno di attenzione ed affaticamento mentale eccessivo o inutile. A tal proposito, dunque, appare il caso di accennare soltanto, in  questa sede,  al fatto che i software sono, salvo diversi particolari accordi, di proprietà di chi li produce e che al limite può essere venduta solo la licenza d’uso con la quale si consente l’utilizzazione su uno o più computer per un determinato periodo di tempo; più in particolare, il  software va considerato, in quanto privo di corporalità fisica, inquadrabile nella categoria dei beni immateriali ed è tutelato come oggetto sottoposto a diritto di autore oppure brevetto. E’ bene, a tal proposito, sapere ancora che i titolari del diritto di autore sono legittimati ad intraprendere qualsiasi tutela tecnologico-informatica per limitare l’uso del loro prodotto da parte dell’acquirente sia nei modi che nei tempi. Copiosissima su questi temi è la relativa messe di legislazione e di giurisprudenza tra cui è utilissimo tenere a riferimenti il D.Lgs n.518 del 15 gennaio 1993 sulle regole per la duplicazione dei software in recepimento della Direttiva CEE 14 maggio 1991 in tema di tutela legale del software ed il più recente D.Lgs.n. 68 del 9 aprile 2003 di recepimento in via definitiva delle indicazioni contenute nella Direttiva Comunitaria 29/2001/CE.

Frigoriferi

Questi evono essere:

Ø      caricati con gas refrigerante ecologico (ozono safe);

Ø      multitemperatura;

Ø      con allarme indipendente dalla rete elettrica in caso di sforamento di temperatura;

Ø      con porta seriale per registrare ed eventualmente stampare con il pc o con termografo;

Ø      con isolamento non inquinante;

Ø      con raffreddamento a circolazione d’aria;

Ø      con sbrinamento automatico;

Ø      con gruppo/i compressore antivibrante ed a basso consumo energetico.

Onde evitare surriscaldamenti con conseguenti malfunzionamenti o guasti, è opportuno scrupolosamente le tenere le distanze minime del gruppo motore dalle pareti ed effettuare periodica manutenzione con adeguata pulizia (con getti di azoto gassoso) dei dissipatori di calore e del gruppo di ventilazione dei motori.

 

Aerazione

L’obiettivo è quello di razionalizzare e controllare il ricambio d’aria per mantenere l’ambiente di lavoro il più possibile salubre e decontaminato.

E’ di fondamentale importanza che la climatizzazione degli ambienti della farmacia sia idonea ad impedire la formazione interna di colonie batteriche e muffe che, reinserite in circolo, possono determinare contaminazioni talora anche di severa entità. 

Anche le polveri, ovviamente, devono essere efficacemente trattenute dai filtri degli impianti di trattamento dell’aria evitando nuove immissioni nel microclima.

Il trattamento dell’aria aspirata dagli ambienti deve consentire, inoltre,  un’affidabile separazione di polveri e batteri che devono ricadere in apposito contenitore a tenuta stagna in cui non deve essere possibile la formazione di colonie batteriche ed in cui sia possibile intervenire anche manualmente senza alcun pericolo per l’operatore.

E’ opportuno, ancora,  che sia riservata una cura meticolosa alla pulizia periodica sia all’interno delle canalizzazioni che degli anemostati e delle prese di aspirazione giacché sono tra i punti di maggior rischio di formazione di colonie batteriche e concentrazione di polveri (queste ultime, tra l’altro, ben visibili nel giro di qualche mese). 

 

Microclima

I fattori oggettivi ambientali da prendere in considerazione quali parametri di microclima sono: temperatura, umidità e velocità dell’aria, irraggiamento da superfici calde.

Il controllo dei suddetti parametri determina il benessere termico evitando lo stress termico.

Quando il microclima presenta una temperatura con valori oscillanti tra i 27°C ed i 29°C, il corpo umano mantiene equilibrata la termoregolazione; quando la temperatura dell’ambiente supera i 29°C, entrano in funzione i meccanismi di smaltimento del calore.

L’ambiente di lavoro è ottimale quando si è in condizione di benessere termico e, quindi, il lavoratore non ha né caldo né freddo. Lo stress termico si ha, invece, quando entrano in i meccanismi di smaltimento del calore. Gli effetti acuti dello stress termico sono costituiti dal colpo di calore, quadro clinico che presenta improvviso innalzamento della temperatura corporea, confusione mentale, irascibilità, delirio, convulsioni, perdita di coscienza; altre forme acute sono la sincope, il collasso ed i crampi. L’esposizione al  calore genera, inoltre, la cosiddetta fatica da calore caratterizzata da spossatezza, irritabilità, facile affaticamento.

Lavorare in condizioni di fatica o stress da calore innalza in modo considerevole il rischio di subire o causare infortuni.

La prevenzione dei danni da calore si attua, oltre che con una specifica aerazione, con una buona progettazione dei locali di lavoro. Normalmente occorre isolare le sorgenti di calore con opportuni materiali cattivi conduttori di calore ed evitare l’uso di materiali dotati di alto potere rifrangente (alluminio ed altri metalli).

 

Illuminazione

Le condizioni visive “fredda”, “calda” o “innaturale” non influenzano solo l’occhio bensì le funzioni vegetative individuali, con modificazioni sullo stato generale di benessere, nonché le funzioni intellettive, con ripercussioni sulla capacità di attenzione e sul rendimento lavorativo.

Il fabbisogno di luce, comunque, non è uguale a tutte le età: con una bassa intensità luminosa la prestazione visiva di una persona di 60 anni è superiore di 5 volte circa rispetto a quella di un individuo di 40 anni e di circa 10 volte rispetto a quella di un bambino di 10 anni.

Aumentando la quantità della luce queste differenze tendono però ad attenuarsi notevolmente: un’illuminazione intensa garantisce, quindi, che chiunque possa giovarsi di condizioni ottimali.

E’ opportuno, però, che non siano superati determinati limiti giacché se l’occhio si affatica quando gli oggetti sono insufficientemente illuminati, esso accusa altrettanto e forse maggior disagio quando questi lo sono in maniera eccessiva: ciò anche a causa del fatto che una luce troppo forte tende a ridurre i contrasti tra le superfici determinando una percezione meno netta degli oggetti.

Né troppa né troppo poca luce, dunque: le condizioni ideali si avrebbero con un’illuminazione che non differisse molto da quella media che si ha di giorno all’aria aperta al riparo dai raggi solari diretti. In altre parole, con quella che viene definita illuminazione a giorno ed in modo uniforme che deve consentire di distinguere i colori, gli ostacoli, gli spigoli vari, la nitidezza dell’immagine. Una situazione assai difficile da ottenere: per quanto riguarda il colore, infatti, non esiste praticamente nessuna sorgente artificiale in grado di riprodurre perfettamente quello della luce solare; quanto all’intensità, poi, nella maggior parte dei casi essa dovrebbe risultare elevata al punto tale da comportare costi decisamente eccessivi. Esiste, comunque, una gamma piuttosto ampia di luminosità entro la quale la prontezza con cui vengono percepiti gli oggetti (la cosiddetta velocità di percezione) e la capacità di distinguere i particolari (detta acuità visiva) rimangono sostanzialmente inalterate.

Per comprendere l’ampiezza di tale intervallo, basterà considerare alcuni semplici dati. Quello che viene detto illuminamento (vale a dire la quantità di luce che incide su una superficie unitaria in un secondo) è di circa 100mila lux in pieno sole in una giornata estiva, di circa 10 mila lux a mezzogiorno all’aperto in una giornata invernale, di 500 – 1000 lux su un tavolo illuminato da un’ampia finestra che non riceve raggi diretti.

L’occhio, in genere, si trova discretamente a suo agio anche con illuminamenti di una cinquantina di lux. Non è certo il caso, comunque, di scendere a livelli così bassi in un ambiente come la farmacia, dove il lavoro che viene svolto è tale da prevedere l’individuazione di dettagli piuttosto fini.

Per un’attività come quella di farmacia, la Commissione Internazionale Illuminazione raccomanda anzi un illuminamento di almeno 500 lux.

Per verificare se nella propria farmacia si realizzano queste condizioni, si può effettuare un controllo “a occhio” (basato, cioè, sul confronto con le condizioni di luce diurna) oppure si può procedere ad una più attendibile misura mediante un luxometro che fornisce i dati di illuminamento direttamente in lux.

Ma una buona illuminazione non si ottiene semplicemente fornendo una sufficiente intensità luminosa: esistono aspetti altrettanto importanti che devono essere attentamente considerati nel realizzare un impianto adeguato. 

Uno di questi è la distribuzione della luce nello spazio: in un ambiente come la farmacia è importante che si realizzino condizioni di luce il più possibile uniformi e che ogni punto sia illuminato a sufficienza.

Va tenuto conto, d’altro canto, del fatto che l’illuminazione necessaria sul banco di vendita o su uno scaffale non è la stessa che è sufficiente nella zona in cui staziona il pubblico o, passando nel retro, che la luce occorrente sul banco delle preparazioni o sulla scrivania è maggiore della luce nell’angolo in cui si conservano le scorte.

E‘ opportuno, quindi, provvedere oltre che ad una illuminazione generale (realizzata con apparecchi disposti in modo da fornire un livello di illuminamento pressoché uniforme in qualsiasi punto dei locali) anche ad una supplementare, realizzata disponendo altri apparecchi a integrazione di quelli per l’illuminazione generale nelle zone che lo necessitano.

La scelta delle posizioni in cui collocare gli apparecchi di illuminazione deve ovviamente tener conto di considerazioni di questo tipo. Una luce uniforme viene ottenuta utilizzando un numero piuttosto elevato di sorgenti ( anche se ciò contraddice un criterio di economicità), disposte alte rispetto al piano di maggior utilizzazione della luce (che in farmacia è rappresentato da quello del banco) e distanziate tra loro all’incirca quanto esse lo sono da tale piano. 

La spaziatura andrà aumentata o diminuita a seconda che si installino apparecchi che producono fasci di luce rispettivamente larghi o stretti. La distanza tra un apparecchio e una parete laterale deve essere circa la metà di quella tra due apparecchi. Queste norme, valide per le lampade a incandescenza, possono essere applicate anche a quelle fluorescenti tenendo, però, conto del fatto che queste ultime devono essere distanziate solo in riferimento ai loro assi, e non relativamente alle estremità, che possono essere invece avvicinate anche fino a pochi centimetri.

Qualora un impianto già installato non risulti adeguato in qualche punto a soddisfare le necessità di illuminazione, lo si può correggere entro certi limiti: ad esempio, mediante l’applicazione di faretti o, nel caso in cui la contro soffittatura si presti, con il monitoraggio di apparecchi da incasso. Molto indicati per soluzioni di questo genere sono gli apparecchi che impiegano lampadine ad alogeni funzionanti a basso voltaggio.

Un particolare da tenere presente è che il rapporto tra l’illuminamento delle zone con più luce e quello dei punti meno illuminati non deve essere troppo elevato (preferibilmente  non superiore a 3 e, comunque, non superiore a 10) altrimenti l’occhio verrà sovraffaticato e distratto dall’eccessivo contrasto di luminosità tra le varie superfici.

Squilibri di questo genere possono essere originati, oltre che dalla disposizione degli apparecchi luminosi, anche dal colore e dal tipo di superficie delle pareti e del mobilio: è chiaro, infatti, che uno scaffale o un muro bianchi e lucidi costituiscono uno sfondo molto più luminoso che degli altri scuri o opachi.

Di tutto ciò occorre tenere conto nello scegliere e nel disporre le fonti di luce e, quando possibile, lo stesso mobilio.

L’illuminazione, dunque, deve essere tale da non creare contrasti eccessivi di luce. Essa non deve, però, neanche risultare troppo uniforme, giacché l’assenza di ombre rende poco nitida la percezione degli oggetti.

In genere, l’illuminazione ottenuta con tubi fluorescenti risulta più omogenea (la disposizione, però, influisce sull'uniformità luminosa: gli oggetti orientati parallelamente ad essi appaiono, infatti, con ombre definite mentre quelli disposti perpendicolarmente risultano illuminati con minore contrasto).

Per questi motivi è opportuno, quando possibile, miscelare la luce prodotta dalle lampade fluorescenti con quella di altre a incandescenza, utilizzando le prime per l’illuminazione generale e le seconde per quella supplementare.

A proposito di ombre, è forse utile ricordare che gli apparecchi di illuminazione devono essere disposti in modo da evitare che le persone proiettino la propria ombra sul banco, o su qualche superficie che è importante risulti ben illuminata.

Una influenza notevole sull’uniformità della distribuzione di luce è esercitata dalla direzione verso la quale viene proiettato il flusso luminoso. Due sono fondamentalmente le possibilità: quello di dirigerlo verso la zona da illuminare (e si ha allora la cosiddetta illuminazione diretta) e quello di inviarlo contro il soffitto o una parete – entrambi di colore chiaro – che provvedono, poi, a rifletterlo in maniera molto diffusa (illuminazione indiretta).

Nel primo caso si ha un elevato rendimento e, quindi, un minor consumo; la luce è piuttosto tagliente, tale da generare notevoli contrasti e ombre molto nette.

Nel secondo caso il rendimento è assai basso; la luce è estremamente diffusa e manca praticamente ogni effetto di ombra, il che rende la visione riposante, ma anche poco nitida e piuttosto monotona.

Tra queste due situazioni limite ne esistono numerose intermedie che consentono di sommare i vantaggi di entrambe le soluzioni minimizzandone gli svantaggi.

Un fenomeno da evitare accuratamente se si vuole garantire un buon confort visivo è quello dell’abbagliamento, per il quale la vista di un oggetto eccessivamente luminoso riduce molte delle capacità visive dell’occhio (acuità visuale, rapidità di percezione e così via).

La prima e più grave forma di abbagliamento è provocata dalla vista diretta delle lampade, specie quelle a incandescenza, il cui filamento può raggiungere una luminosità (radianza) di diversi milioni di lux. L’abbagliamento di questo tipo è, ovviamente, tanto più pronunciato quanto più debole è l’illuminamento medio dell’ambiente e quanto più le lampade sono vicine all’occhio.

Oltre a tale genere di abbagliamento, definito diretto, ne esiste anche uno indiretto, che è provocato dalla riflessione della luce nella direzione dell’occhio da parte di una superficie lucida o riflettente: una parete tinteggiata a smalto, un mobile in formica lucida o con ante a vetri, un piano del banco in cristallo o in marmo levigato.

Per evitare entrambi i tipi di abbagliamento la soluzione migliore consiste nell’impiegare un’illuminazione indiretta. Altrimenti si può minimizzare quello diretto posizionando in alto, lontane dal campo visivo, le fonti di luce, oppure schermandole in modo tale da “nascondere” all’occhio la loro vista: un accorgimento questo che va impiegato soprattutto per le sorgenti che si trovino entro 30 gradi dall’asse della visione.

Si può, poi, evitare l’abbagliamento indiretto preferendo le superfici matt (opache e un po’ rugose) a quelle lucide e collocando gli apparecchi in modo tale che le lampade non formino in nessun punto con le parti riflettenti situate nel campo visivo angoli uguali a quelli formati dalle stesse superfici con gli occhi.

Per questo motivo è bene disporre gli apparecchi di illuminazione, specie quelli che impiegano tubi fluorescenti, parallelamente al banco e non trasversalmente ad esso.

Una sfavorevole condizione di illuminazione oltre a sottoporre l’occhio ad una molteplicità di regolazioni della vista con conseguenti affaticamento, irritazione e disturbo comportano quasi sempre compensazioni nella postura con conseguenti disturbi a carico degli apparati muscolari e locomotore passivo.

 

 

Rumori

Il rumore ha un importante effetto sulla salute e sul senso di benessere individuale.

L’uso di attrezzature di vario tipo e macchine hanno amplificato le fonti di rumore ed aumentato il numero dei lavoratori esposti a questo rischio; le misure preventive, nonostante l’azione posta dalle ditte produttrici, non di rado non sono proporzionati al rischio.

Nell’ambito della prevenzione occorre, poi, ridurre i livelli di rumore e la sua intensità o produzione alla fonte, limitare con sistemi fonoassorbenti la propagazione del rumore, limitare i tempi di esposizione al rumore, utilizzare protezioni individuali (tappi o cuffie), sottoporre i lavoratori a sorveglianza sanitaria.

Un rumore continuo di elevata intensità (più di 80 dB) può danneggiare l’udito, ma anche un rumore continuo di media intensità (tra 60 e 80 dB) può portare a turbamenti psico-fisici. 

Il rumore causa ipoacusia e sordità per cui occorre prevenirlo e bonificare gli ambienti di lavoro. Gli effetti del rumore possono essere distinti in:

Ø      uditivi: incidono in modo negativo sull’organo dell’udito provocando fischi e ronzii alle orecchie con iniziale riduzione della capacità uditiva e successiva sordità che è bilaterale e simmetrica. Inizialmente vi può essere sordità temporanea con recupero della sensibilità dopo riposo notturno in ambiente silenzioso; se il fenomeno perdura riduce la sensibilità e, infine, lo stato di sordità con riduzione dell’intelligibilità del 50%.

Ø      extra uditivi: insonnia, facile irritabilità, diminuzione della capacità di concentrazione con conseguente sindrome ansioso-depressiva, aumento della pressione arteriosa, difficoltà digestiva, gastriti o ulcere, alterazioni tiroidee, disturbi mestruali, ecc.

Si riporta di seguito una scala di intensità e nocività dei rumori.

 

Rumori

Decibel

Fattore superamento soglia uditiva

Effetto sulle persone

Zona tranquilla

(soglia uditiva)

1

 

 

 

Inversione degli effetti

a causa della monotonia

Stormire di foglie

10

10

Vento esterno leggero

20

102

Mormorio

30

103

Conversazione tranquilla

40

104

Musica radio in sordina

50

105

Zona nociva

 Conversazione a livello normale

60

106

Problemi di comprensione,

disturbi e possibilità di noiosi

effetti psicologici

Uffici senza in sonorizzazione

70

107

Bordi di strada a traffico pesante

80

108

Zona pericolosa

Sala telai tessili

90

109

 

Danno all’udito a lungo termine

e noiosi disturbi psicologici

Reparto presse eccentriche

100

1010

Martello pneumatico a 1 metro

110

1011

Martello a rivettare a 1 metro

120

1012

Motore jet a 5 metri

130

1013

Danno all’udito in breve tempo

 

Per ogni tipo di edificio i requisiti acustici passivi minimi, ovvero fonoisolamento acustico, sono fissati per legge dal Dpcm del 5 dicembre 1997.

Il contenuto del decreto supera qualsiasi regolamento (di igiene, edilizio, di norme tecniche di attuazione dei piani regolatori comunali) che, come non di rado accade, non lo avesse ancora recepito.

Il fonoisolamento acustico è la capacità che hanno un tramezzo  o  una parete verticale o una soletta o un  pavimento o una facciata di opporsi al passaggio del rumore.

Questo rumore può essere generato sia all’interno di un edificio (impianti idraulici, aria condizionata, aerazione, riscaldamento, ascensore, ecc.) che dall’esterno (es.: traffico).

I valori minimi di fonoisolamento prescritti dal Dpcm del 5 dicembre 1997 sono piuttosto severi e, in realtà, nessuna tradizionale pratica di “buon costruire” alla verifica dei fatti ha superato l’esame.

 

 

ISOLAMENTO  MINIMO

I requisiti acustici passivi minimi  di fonoisolamento stabiliti dal Dpcm 5 dicembre 1997 (decibel)

 

Edificio               Tra 2 unità immob.                 Di facciata              Da calpestio per solai (*)

Ospedali                              55                                      45                                        58

Abitazioni                           50                                      40                                        63

Alberghi                              50                                      48                                        58

Uffici, chiese,                      50                                      42                                        55

attiv. creative,                      50                                      42                                        55

attiv. commerciali                50                                      42                                        55

 

(*) misurato da macchina normalizzata che “cammina” sul pavimento al di sotto del quale non devono rilevarsi valori superiori a quelli indicati

 

I requisiti acustici passivi minimi del Dpcm hanno valori che solitamente sono al di là delle aspettative dell’utente medio dell’opera civile. E’, pertanto,  assai probabile che siano comunque molto al di sotto degli standard di legge anche numerose costruzioni che in passato non hanno mai dato adito a proteste su questo fronte.

 

 

Colori

Un’ottima illuminazione risulta molto utile anche per la percezione dei colori. Il riconoscimento dei colori da parte dell’occhio è ottenuto da tre differenti tipi di coni e dalla successiva decodifica che avviene in un’area neutra della retina; come per la televisione, la sovrapposizione dei tre colori fondamentali è alla base della percezione dell’intera gamma cromatica da parte dell’occhio.

In condizioni di ottima illuminazione, quale dovrebbe essere quella dell’ambiente di lavoro, l’occhio mostra una maggiore sensibilità alla regione giallo verde dello spettro.

Se l’illuminazione non è così buona, il punto di massima sensibilità si sposta verso lunghezze d’onda più corte (regione del verde).

La regione giallo verde dello spettro è anche quella ad andare a fuoco molto accuratamente sulla retina, mentre il blu va a fuoco davanti alla retina ed il rosso tende ad andare a fuoco dietro la retina.

E’ possibile per l’occhio mettere a fuoco il rosso sulla retina mediante la sua capacità di accomodamento ma non così per il colore blu.

Inoltre, a parità di forza delle radiazioni, il blu e il rosso sono percepiti molto più debolmente delle luci gialle, giallo verdi e verdi; perché le luci rosse e blu siano percepite dall’occhio in modo pari alle gialle e alle verdi occorre che la loro intensità sia maggiore.

Queste considerazioni sulla sensibilità dell’occhio ai colori suggerisce, nell’allestimento di farmacia, di fare ampio uso di materiali che presentino una colorazione nella gamma gialla verde dello spettro, al fine di conferire luminosità all’ambiente, di attirare più facilmente l’attenzione di chi vi lavora e di ridurre al minimo l’affaticamento dell’occhio, che deve ricorrere molto meno alla sua capacità di accomodamento.

Per quanto riguarda, poi, la composizione cromatica della luce all’interno degli uffici di farmacia, se l’ambiente è caratterizzato da un basso livello di illuminazione è molto importante che non vengano utilizzate come unica sorgente di luce le cosiddette lampade a luce diurna: infatti, l’alto contenuto di luce blu di queste lampade determina una miopia derivante dalla difficoltà di messa a fuoco del colore e una riduzione del senso di benessere individuale. Queste lampade possono essere utilizzate convenientemente quando la base dell’illuminazione ambientale provenga da una fonte luminosa a tonalità calda.

Approfondendo ulteriormente, va considerato che una soddisfacente resa dei colori è funzione innanzitutto del livello di illuminamento che deve essere abbastanza elevato (intorno a 1000 lux).

Ma ciò non basta: è necessario anche che lo spettro luminoso delle sorgenti, considerato nel suo complesso, non si discosti troppo da quello della luce solare: che vengano emessi, insomma, tutti i colori dell’iride e con intensità non eccessivamente dissimili tra loro.

Le proprietà di un lampada, agli effetti della resa dei colori, vengono valutate attraverso il cosiddetto indice di resa cromatica (IRC o Ra): la resa cromatica è ottima se IRC è compreso tra 85 e 100, buona (o di livello 2) se è compreso tra 70 e 84, sufficiente (o di livello 3) se è compreso tra 40 e 69.

Le lampade a incandescenza emettono uno spettro continuo (anche se gradualmente più intenso dal blu verso il rosso) più simile, quindi, allo spettro solare di quello proprio delle lampade fluorescenti che risulta caratterizzato da righe monocromatiche.

La resa dei colori è, dunque, più soddisfacente in genere con le prime anziché con le seconde: queste ultime modificano l’aspetto delle superfici colorate, con effetti che, quando sono molto accentuati, risultano psicologicamente sgradevoli.

 

 

Movimentazione dei carichi

Capita spesso in farmacia che si debbano spostare pacchi e contenitori, talvolta pesanti e ingombranti. Non sempre è sufficiente il buon senso occorrendo osservare il più delle volte delle precise regole indicate dalla legge.

Al Titolo V del D.Lgs. 626/94, e più precisamente agli art.47, 48 e 49, si specifica la “movimentazione dei carichi.

Questi comprendono un vasto campo di applicazione in tutti i settori lavorativi: è, quindi, di grande interesse anche per i farmacisti che, come datori di lavoro, hanno l’obbligo di osservare e di far rispettare le norme a tutela dei propri collaboratori.

I su citati articoli del  Titolo V del D.Lgs. 626/94 recitano testualmente:

art.47 – Campo di applicazione

1)      Le norme del presente titolo si applicano alle attività che comportano la movimentazione manuale dei carichi con rischi, tra l’altro, di lesioni dorso lombari per i lavoratori durante il lavoro.

2)      Si intendono per:

a)      movimentazione manuale dei carichi: le operazioni di trasporto o di sostegno di un carico ad opera di uno o più lavoratori, comprese le azioni del sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un carico che, per le loro caratteristiche o in conseguenza delle condizioni ergonomche sfavorevoli, comportano tra l’altro rischi di lesioni dorso lombari;

b)      lesioni dorso lombari: lesioni a carico delle strutture osteomiotendinee e nervovascolari.

 

art.48 – Obblighi dei datori di lavoro

1)      Il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie o ricorre ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori.

2)      Qualora non sia possibile evitare la movimentazione dei carichi ad opera dei lavoratori, il datore di lavoro adotta le misure organizzative necessarie, ricorre ai mezzi appropriati o fornisce ai lavoratori stessi mezzi adeguati, allo scopo di ridurre il rischio che comporta la movimentazione manuale dei carichi, in base all’allegato VI.

3)      Nel caso in cui la necessità di una movimentazione manuale di un carico ad opera del lavoratore non può essere evitata, il datore di lavoro organizza i posti di lavoro in modo che detta movimentazione sia quanto più possibile sicura e sana.

4)      Nei casi di cui al comma 3 il datore di lavoro:

a)      valuta, se possibile, preliminarmente, le condizioni di sicurezza e di salute connesse al lavoro in questione e tiene conto in particolare delle caratteristiche del carico, in base all’allegato VI.

b)      adotta le misure atte ad evitare o ridurre tra l’altro i rischi  di lesioni dorso lombari, tenendo conto in particolare dei fattori individuali di rischio, delle caratteristiche dell’ambiente di lavoro e delle esigenze che tale attività comporta, in base all’allegato VI;

c)      sottopone alla sorveglianza sanitaria di cui all’art.16 gli addetti alle attività di cui al presente titolo.

 

art.49 - Obblighi dei lavoratori

    1)  Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori informazione, in particolare per quanto riguarda:

a)      il peso del carico;

b)      il centro di gravità o il lato o il lato più pesante nel caso in cui il contenuto di un imballaggio abbia una collocazione eccentrica;

c)      la movimentazione corretta dei carichi e i rischi che i lavoratori corrono se queste attività non vengono eseguite in maniera corretta, tenuto conto degli elementi di cui all’allegato VI.

3)      il datore di lavoro assicura ai lavoratori una formazione adeguata, in particolare in ordine a quanto indicato al comma 1

Allegato VI

Esamina tutti gli elementi di rischio individuali lavorativi per il rachide dorso lombare specificando:

Caratteristiche del carico: la movimentazione manuale di un carico può costituire un rischio tra l’altro dorso lombare nei seguenti casi : se il carico è troppo pesante (30 kg), ingombrante, in equilibrio instabile.

Sforzo fisico richiesto: lo sforzo fisico può presentare un rischio tra l’altro dorso lombare nei seguenti casi: se lo sforzo è eccessivo, con movimento di torsione, con movimento brusco, con posizione instabile del lavoratore, con velocità.

Ambiente di lavoro: le caratteristiche dell’ambiente di lavoro possono aumentare le possibilità di rischio tra l’altro dorso lombare, se l’ambiente non ha determinati requisiti: controllare sempre  lo spazio libero verticale e orizzontale, il pavimento, il piano di lavoro, il microclima, il ritmo di lavoro.

Fattori individuali di rischio: il lavoratore può correre il rischio nei seguenti casi: inidoneità fisica al compito in questione; indumenti, calzature o altri effetti personali inadeguati portati dal lavoratore; insufficienza o inadeguatezza delle conoscenze o della formazione.

Riassumendo:

Ø                  va evitata  l’abituale movimentazione  (sollevamento, spinta, traino, trasporto) manuale di oggetti, ricorrendo ai sistemi automatizzati;

Ø                  quando ciò non sia possibile, il posto di lavoro può essere dotato di attrezzi meccanici (es. sollevatori semiautomatici che consentono di spostare il carico senza fatica);

Ø                  la movimentazione manuale è consentita solo quando gli oggetti da spostare sono già nel posto e gli strumenti del lavoro sono progettati in modo da evitare danni alla schiena.

La legge italiana specifica i seguenti valori limite per quanto riguarda il sollevamento di pesi: kg 30 maschi adulti; kg 20 femmine adulte; kg 20 maschi adolescenti; kg 15 femmine adolescenti.

La prima regola, dunque, è non sollevare mai da soli pesi superiori ai valori limite.

Posture: quando la postura è buona la posizione eretta si mantiene con minimo sforzo sottoponendo alla minor tensione muscoli, legamenti ed ossa. Una buona postura in stazione eretta comporta: testa e torace eretti, addome in dentro, ginocchia leggermente fisse, piedi appoggiati al suolo distanti circa quindici centimetri l’uno dall’altro.

La  movimentazione manuale dei carichi non è l’unico rischio. E’ necessario controllare la posizione della schiena ed evitare posizioni viziate anche dell’ambiente di lavoro.

Per evitare danni da compressione dei dischi intervertebrali, nel sollevamento dei pesi occorre  non solo attenersi ai limiti consigliati bensì flettere le ginocchia e non la schiena, mantenere il carico il più vicino possibile al corpo, evitare le torsioni del tronco durante il sollevamento.

 

Macchine, attrezzature, macchine mobili, apparecchi di sollevamento

In questo settore si registra il maggior numero di infortuni sul lavoro. Oltre ai rischi di natura meccanica e tradizionali, ben conosciuti e monitorati, vi sono oggi numerosi nuovi rischi e problematiche generati dalle nuove tecnologie, soprattutto nel settore della robotica.

Le attrezzature acquistate, pertanto, devono rispondere ai requisiti di sicurezza e devono mantenere tali requisiti anche nei locali di lavoro. Le attrezzature non più a norma devono essere portate entro i parametri normativi oppure vanno sostituite.

Le attrezzature da lavoro possono provocare infortuni che interessano (fonti INAIL) prevalentemente la mano (66%), il polso (4%), il braccio e l’avambraccio (3%), il cranio (2,5%) con ferite (50%), fratture, lussazioni e distorsioni (44%); il grado di inabilità medio (non professione-specifico)  è del 20,2%.

Ai fini preventivi la scelta di una nuova attrezzatura deve essere fatta tenendo conto sia delle caratteristiche tecniche sia di quelle legate alla sicurezza. La prevenzione deve rientrare nella redazione dei capitolati. E’ necessario aggiungere gli aspetti specifici dell’impresa che hanno una incidenza sulle condizioni di lavoro e sulla sicurezza del personale (esperienza dei lavoratori, esigenze della clientela, condizioni ambientali, ecc.). Il responsabile dell’impresa deve verificare: l’adeguatezza dell’attrezzatura, le corrette installazione, utilizzazione, manutenzione (straordinaria e ordinaria), la sicurezza del personale.

I più ricorrenti rischi di infortuni connessi all’installazione ed all’uso di apparecchiature o motori sono: inidonee attrezzatura utilizzata e condizioni di installazione, minima distanza tra le macchine, ingombro nei passaggi, esiguo spazio in cui si usano, scarso livello di protezione delle parti in movimento, utensili da taglio, elementi mobili.

Le macchine possono essere suddivise in tre categorie:

Ø      Categoria 1: macchine sulle quali l’operatore interviene in via continuativa nelle prossimità immediate delle parti in movimento;

Ø      Categoria 2: macchine automatiche in cui l’operatore interviene all’inizio e/o alla fine del ciclo;

Ø      Categoria 3: macchine totalmente automatiche. L’operatore sorveglia la macchina ed interviene direttamente ad intervalli predeterminati (inizio/fine lavoro, inizio/fine produzione, settaggio, manutenzione). Macchine in serie dove l’operatore non è vicino agli elementi mobili.

La pericolosità per gli operatori deve essere evitata o limitata nella Categoria 1 dove il pericolo è sempre in agguato e la sicurezza è un po’ compromessa. In questo caso il rischio deve essere ben studiato e si devono trovare le condizioni migliori.

La pericolosità delle macchine della Categoria 2 è limitata alle parti in movimento e, quindi, l’operatore può lavorare in prossimità di queste quando esse sono ferme e non ci sia un riavvio improvviso.

La pericolosità nella Categoria 3 è soprattutto per il personale che effettua la pulizia, la manutenzione e le operazioni di regolazione delle macchine. In tal caso devono essere previsti dei selettori che bloccano i meccanismi in funzione. In ogni caso si deve garantire la massima riduzione del rischio.

Gli operatori delle macchine devono essere informati e formati sul funzionamento delle attrezzature.

Tutte le macchine, infine, devono essere fornite di marchio CE ed accompagnate da un libretto di istruzioni.

 

 

Sicurezza antincendio e gestione dell’emergenza

L’art. 23, comma 1 del d.lgs. 626/94 e successive modificazioni attribuisce tale funzione in via generale alla ASL e, per quanto di specifica competenza, al Corpo Nazionale dei Vigilio del Fuoco. Inoltre, l’art.23, comma 2, del D.lgs. 626/94 prevede l’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di sicurezza suoi luoghi di lavoro anche da parte dell’Ispettorato del Lavoro.

Dalle norme citate si evince, dunque, che il corretto adempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi connessi alle misure in materia di sicurezza antincendio e di gestione dell’emergenza, tra le quali rientra l’installazione di estintori, può essere verificata dall’ASL, dai Vigili del Fuoco o dall’Ispettorato del Lavoro.

La mancata adozione di tali misure sono soggette all’arresto da due a quattro mesi e l’ammenda da 500 a 2500 euro.

Per la prevenzione incendi bisogna rifarsi, inoltre, alle dettagliate istruzioni fornite dal Ministero dell’Interno con la Circolare 29 agosto 1995 n. P1554/4146.

Gli estintori in dotazione alla farmacia, del tipo omologato, con specifica scheda tecnica e segnaletica regolamentare vanno anche indicati nelle piantine tecniche dei locali per uso emergenza nonché nella pianta dei locali allegata alla relazione di valutazione dei rischi aziendali.

Gli estintori vanno installati sempre e comunque.

La necessità di un impianto antincendio a idranti si può valutare solo a seguito della valutazione di rischio incendio, da effettuarsi con i criteri di cui al DM 10 marzo 1998, che porta a definire l’attività lavorativa come attività a rischio  incendio basso, medio o elevato.

In merito alla valutazione dei rischi, l’art. 4 del D. Lgs. 626/94, commi 1,2 e 3, specifica l’obbligo di valutazione di qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori, compreso, dunque, i rischi di incendio.

La speciale deroga, infine, prevista dal comma 11 art. 4 del D. Lgs. 626/94 per le aziende con meno di dieci addetti, in merito alla relazione sulla svalutazione dei rischi, non è concessa se le aziende sono a rischio di incidente rilevante.

Tra gli adempimenti di legge, inoltre, c’è anche l’obbligo di creare delle vie di fuga; nel caso tale operazione presenti un alto coefficiente di difficoltà di realizzazione in talune realtà, potranno essere consultati gli Organi di Vigilanza che per legge hanno l’obbligo di assistere le p.m.i. nell’applicazione delle normative tecniche.

Ogni lavoratore, infine, deve sapere come prevenire un incendio e conoscere le azioni da porre in essere a seguito del verificarsi di un incendio.

 

Impianti elettrici

La messa in esercizio di impianti elettrici, di messa a terra, di dispositivi di protezione contro le scariche atmosferiche, di impianti elettrici in luoghi con pericolo di esplosione, non può essere effettuata prima della verifica eseguita dall’installatore che rilascia la dichiarazione di conformità ai sensi della normativa vigente. La dichiarazione di conformità equivale a tutti gli effetti ad omologazione dell’impianto.

Entro trenta giorni dalla messa in esercizio dell’impianto il farmacista titolare invia la dichiarazione di conformità all’ISPESL e all’ASL o all’ARPA territorialmente competenti unitamente al Certificato di iscrizione speciale alla CCIAA ed alla relazione sulla tipologia dei materiali utilizzati”. Senza questi due allegati obbligatori, la dichiarazione di conformità non ha alcun valore..

Nei Comuni singoli o associati ove è stato attivato lo sportello unico per le attività produttive, la dichiarazione di conformità è presentata allo stesso.

Il farmacista titolare è tenuto ad effettuare regolari manutenzioni dell’impianto, nonché a far sottoporre lo stesso a verifica periodica ogni due anni.

Per l’effettuazione della verifica, il farmacista titolare si rivolge all’ASL o all’ARPA o ad eventuali organismi individuati dal Ministero delle Attività Produttive sulla base di criteri stabiliti dalla normativa tecnica europea UNI CEI.

Il soggetto che ha eseguito la verifica periodica rilascia il relativo verbale al datore di lavoro che deve conservarlo ed esibirlo a richiesta degli organi di vigilanza.

Le verifiche sono onerose e le spese per la loro effettuazione sono a carico del datore di lavoro.

Quando si realizza o si modifica uno di questi impianti è necessario, innanzitutto, accertarsi della idoneità tecnico-professionale della ditta installatrice. Quest’obbligo non deriva soltanto dall’art.10 della legge 46/90 (“Il committente o il proprietario è tenuto ad affidare i lavori di installazione, trasformazione ampliamento e manutenzione degli impianti di cui all’art.1 ad imprese abilitate ai sensi dell’art.2”) ma anche dall’obbligo derivante dall’art. 7 del D.Lgs.626/94 che recita “Contratto di appalto o contratto d’opera”. In caso di incidente all’interno della propria struttura occorso durante l’esecuzione dei lavori, il mancato rispetto degli obblighi imposti da questo articolo può comportare il concorso di colpa del datore di lavoro committente. Altro obbligo fondamentale prima di iniziare i lavori è, poi, quello imposto dall’art.3, comma 8, lettera b) del D. Lgs. 494/1996  che impone che il committente chieda “…alle imprese esecutrici una dichiarazione dell’organico medio annuo, distinto per qualifica, corredata dagli estremi delle denunce dei lavoratori effettuate all’INPS ed all’INAIL ed alle Casse Edili, nonché una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti”. Prima di iniziare i lavori occorre, inoltre, che la ditta esecutrice dei lavori consegni una copia del certificato CCIAA attestante l’iscrizione della ditta stessa negli elenchi di abilitazione di cui a lett. A) oppure b) di art.1 legge 46/90.

Un’altra cosa da verificare è la necessità di redazione del progetto dell’impianto.

Per quanto riguarda l’impianto elettrico, l’obbligo di redazione del progetto sussiste se la superficie utile (calpestabile) della struttura è superiore a 200 mq; per l’impianto di protezione dalle scariche atmosferiche l’obbligo sussiste se l’edificio che ospita la farmacia è alto più di 5 mt ed ha volume superiore a 200 mc. La necessità di installazione di impianto di protezione dalle scariche atmosferiche scaturisce dall’applicazione della norma CEI 81-4 (Comitato Elettrotecnico Italiano: redige e pubblica le norme per l’installazione, progettazione e manutenzione degli impianti elettrici): solo se il rischio così considerato è maggiore di quello ammissibile stabilito dalla norma, si deve procedere ad installazione o ad adottare i sistemi previsti dalla norma stessa per la riduzione del rischio. In ogni caso va conservata la valutazione del rischio effettuata. Il progetto, se necessario, va redatto esclusivamente da un ingegnere o da un perito industriale, purché iscritti ai rispettivi Albi Professionali, come affermato da innumerevoli pronunciamenti giurisprudenziali.

L’obbligo della denuncia per l’impianto di messa a terra sussiste se nel luogo di lavoro vi è almeno un lavoratore come definito dal D.Lgs. 626/94.

In caso di omessa tempestiva denuncia la farmacia potrà, in ogni caso, definire l’occorso evitando ogni ulteriore provvedimento anche penale provvedendo entro sei mesi ad effettuare la predetta denuncia all’ISPESL competente e alla ASL, nonché pagando la somma di 258,23 euro.

L’ISPESL, a sua volta, effettua a campione la prima verifica sulla conformità trasmettendo le relative risultanze all’ASL o all’ARPA.

Ogni 5 anni, poi, vanno eseguite le visite periodiche; nel corso delle verifiche viene svolto un controllo della documentazione che deve essere sempre conservata in farmacia, vengono eseguiti i controlli visivi e strumentali dell’impianto. Non bisogna mai dimenticare di far svolgere la verifica periodica in quanto l’inadempienza, in caso di accertamento da parte dei servizi di vigilanza dell’ASL viene punita con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda da 258,23 euro fino a 1.032,91 euro. Il soggetto (ASL o ARPA o eventuali organismi individuati dal Ministero delle Attività Produttive sulla base di criteri stabiliti dalla normativa tecnica europea UNI CEI) che ha eseguito la visita periodica rilascia il relativo verbale al farmacista che deve conservarlo ed esibirlo a richiesta degli organi di vigilanza. Tali verifiche sono onerose e vanno a carico del farmacista.

 

 

Rischio biologico da autoanalisi

Nell’assistenza al cliente che effettua autoanalisi in farmacia o nelle successive operazioni di smaltimento dei relativi rifiuti prodottisi (vedasi specifico capitolo), si presenta il problema della gestione del rischio biologico.

In questa sede ci occupiamo essenzialmente del rischio derivante da HIV, HBV e HCV, benché numerosi protocolli di fatto sono applicabili nella prevenzione anche di molti altri agenti eziologici, giacché dal punto di vista epidemiologico dai dati riportati in letteratura appare evidente che il sangue è il campione biologico associato al rischio più elevato di esposizione dei su citati patogeni.

Le principali modalità di esposizione sono la per cutanea (70%) e la mucocutanea (30%).

La puntura con ago rappresenta la modalità di esposizione per cutanea più frequente.

Non sono stati documentati casi di infezione correlata all’inalazione di sangue aerosolizzato o al contatto con cute integra.

Nell’ambito dei fattori che influenzano il rischio di trasmissione, va considerato che l’HIV non resiste a lungo nel sangue essiccato (e non è documentata la trasmissione per questa via) mentre l’HBV è vitale nel sangue essiccato fino a 7 gg a 25 °C (alto rischio!!).

Il rischio di trasmissione per cutanea  è: HIV 0,2 - 0,5%, HBV 2 - 40%, HCV 0 - 7%.

E’, inoltre, opportuno osservare le seguenti indicazioni per prevenire incidenti con aghi o strumenti taglienti:

Ø      non ri-incappucciare l’ago o la lancetta pungidito;

Ø      non rimuovere mai l’ago dalla siringa con le mani;

Ø      riporre gli oggetti taglienti in contenitori rigidi, non perforabili.

Per le superfici di lavoro, poi, è bene attenersi alle seguenti indicazioni:

Ø      pulire e disinfettare ogni giorno con candeggina allo 0,5%;

Ø      nel caso di contaminazione grossolana, eseguire la procedura by wiping (Protocollo Organizzazione Mondiale della Sanità - O.M.S.):

-    coprire l’area con candeggina;

-    asciugare;

-    ripetere più volte per almeno dieci minuti.

Il camice da lavoro, infine, deve essere immediatamente cambiato in caso di contaminazione con sangue o liquidi corporei.

 

Linee guida di buona pratica microbiologica

Ø      muri e pavimenti devono essere lisci e di facile pulizia;

Ø      le superfici dei banconi di lavoro devono essere impermeabili, resistenti ai disinfettanti, agli acidi e alcali, resistenti al fuoco;

Ø      arredo facilmente lavabile;

Ø      evitare disordine sui banchi da lavoro;

Ø      le zone di passaggio devono essere sempre libere;

Ø      lavabo azionato con il piede o con il gomito;

Ø      presenza negli spogliatoi per il personale di armadi che abbiano gli indumenti da lavoro ben separati da quelli personali;

Ø      buon riciclo dell’aria;

Ø      i reagenti infiammabili devono essere evitati o, se necessari, utilizzare quantitativi limitati stoccandoli in modo idoneo;

Ø      bombole e solventi infiammabili devono essere lontani da fiamme libere e da fonti di calore.

 

 

Valutazione dei rischi e individuazione delle relative misure di sicurezza

La valutazione dei rischi, di cui il titolare è chiamato a rispondere in prima persona, si effettua con l’elaborazione di un documento (di cui all’art.4, comma 2, lettera a) D.lgs 626/94) che deve contenere:

1.       relazione sulla valutazione stessa e sui criteri seguiti, con indicati almeno:

Ø      la realtà operativa considerata (posti di lavoro, attrezzature, mansioni) con l’illustrazione dei pericoli e dei rischi correlati;

Ø      le persone esposte a rischio prese in esame;

Ø      il procedimento seguito per la valutazione dei rischi;

Ø      il grado di coinvolgimento dei lavoratori nella valutazione, in particolare del rappresentante per la sicurezza;

Ø      le professionalità (interne o esterne) cui si è fatto eventualmente ricorso;

Ø      le norme di legge o, in mancanza, di buona tecnica per definire le misure di protezione e prevenzione.

2.       individuazione delle misure adottate ed eventualmente programmate per ridurre i rischi residui, illustrando:

Ø      le azioni adottate o previste per la formazione e informazione dei lavoratori;

Ø      mezzi di protezione personali o collettivi messi a disposizione dei lavoratori.

3.       il programma di attuazione delle misure di protezione e prevenzione, indicando:

Ø      le modalità di controllo dell’efficienza delle misure adottate;

Ø      il piano per il riesame periodico delle valutazioni, anche a seguito dell’azione di controllo.

Il documento, così compilato, va custodito in farmacia, ai sensi dell’art.4, comma 3,d.lgs.626/94, allegandovi ogni utile documentazione, in particolare quella specificatamente indicata nei singoli titoli e capi del D.l.vo 626/94, ovvero:

Ø      il rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro e nella scelta delle attrezzature

       (lettera f);

Ø      il controllo sanitario dei lavoratori in caso di rischi specifici (lettere l, m);

Ø      le misure igieniche (lettera n);

Ø      le misure di emergenza in caso di pronto soccorso o incendio (lettera p);

Ø      la regolare manutenzione degli ambienti, attrezzature ed impianti - soprattutto quello elettrico, che va certificato e, poi, verificato dall’Asl - (lettera r);

Ø      il coinvolgimento dei lavoratori (lettere s, t).

E’ importante sottolineare che ogni qualvolta si richieda una specifica valutazione di un rischio particolare, la relazione sulla valutazione  dei rischi aziendali dovrà essere integrata da tale complemento essenziale (Circolare Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 7 agosto 1995 n. 102/95).

Il comma 1 dell’art.24 del D.L.vo 626/94, come sostituito dall’art.11 D.L.vo 242/96, dispone, inoltre,  che le imprese per la redazione del documento di valutazione dei rischi possano avvalersi della consulenza ed assistenza in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, dell’Istituto Superiore per la Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro, anche mediante i relativi Dipartimenti periferici.

Si rinvia al successivo capitolo per una più esaustiva disamina inerente l’importante problematica della valutazione per il controllo dei rischi.

 

 

Tipologie di esonero dall’obbligo del documento di Valutazione dei rischi

L’art.11 del D.Lgs. 29 marzo 1996 n.242/96 (Modifiche ed integrazioni al D.Lgs. 19.09.94 n.626), infine, dispone che per le aziende familiari ( di cui all’art.230 bis Codice Civile: composte da coniuge, parenti entro il 3° grado, gli affini entro il 2° grado) o le aziende che occupino fino a 10 addetti e purché queste aziende non siano soggette a particolari fattori di rischio e individuate nell’ambito di specifici settori produttivi, il datore di lavoro non è soggetto all’obbligo della redazione del documento sopra menzionato ma è tenuto comunque ad autocertificare per iscritto l’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi e l’adempimento degli obblighi ad essa collegati.

In tal modo il Legislatore ha coerentemente inteso stabilire procedure più snelle per i luoghi di lavoro caratterizzati da condizioni di basso rischio.

Peraltro, è quanto mai opportuno precisare che l’autocertificazione non è priva di significato, dal momento che con tale atto il datore di lavoro dichiara formalmente di conoscere e di aver assolto gli obblighi che gli fanno carico in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, con particolare riguardo alla valutazione dei rischi e all’adozione delle necessarie  misure di sicurezza.

Dal computo del numero dei dipendenti della farmacia non vengono calcolati, oltre ai su citati collaboratori familiari, i seguenti soggetti:

Ø      tirocinanti (coloro che svolgono il tirocinio in farmacia prima della laurea);

Ø      lavoratori in prova;

Ø      sostituti di lavoratori assenti per gravidanza, puerperio, servizio di leva;

Ø      volontari e lavoratori in rapporto di lavoro subordinato speciale.

Dal computo del numero dei dipendenti vengono calcolati, invece, i seguenti soggetti:

Ø      giovani assunti con contratto di formazione e lavoro;

Ø      apprendisti;

Ø      lavoratori assenti ma con diritto alla conservazione del posto di lavoro;

Ø      lavoratori part time (nella misura corrispondente al numero di ore contrattualmente previste; ad esempio: due lavoratori part time con 20 ore settimanali lavorative corrispondono ad un lavoratore a tempo pieno).

 

 

Svolgimento diretto dei compiti di sicurezza sul lavoro

Il titolare di farmacia che, nei casi previsti dalla legge, intenda assumersi l’onere di svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dei lavoratori, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, dandone preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, deve frequentare un apposito corso di formazione in materia di sicurezza e salute sul luogo di lavoro, promosso con periodicità sia dalle Associazioni /Ordini professionali di categoria che dalle locali Camere di Commercio.

L’attestazione dell’avvenuta formazione deve essere conservata in farmacia a cura del titolare.

Qualora, invece, il titolare o direttore di farmacia, in cui siano impiegati non più di dieci lavoratori, entro il 31 dicembre 1996 avesse provveduto ad autocertificare per iscritto l’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi e gli adempimenti obbligatori ad essa collegati, erano automaticamente esonerato in permanenza dall’obbligo della frequenza del corso di formazione.

Ai sensi della Circolare 39/03 della Direzione Generale Tutela Condizione Lavoro Div. VII Min. Lavoro, non sono più attualmente evitabili corsi di aggiornamento che devono avere cadenza almeno quinquennale. E’ previsto, comunque, un periodo transitorio per coloro i quali, privi dei titoli specifici (laurea triennale in Ingegneria della Sicurezza e Protezione oppure Scienze della Sicurezza e Protezione oppure Tecniche della Prevenzione nell’ambiente o sui luoghi di lavoro) potranno ugualmente esercitare il ruolo di Responsabile della Sicurezza se potranno dimostrare di aver svolto tale ruolo per almeno 6 mesi antecedenti, e in corso di svolgimento, al 13 agosto 2003, in attesa dei corsi di formazione previsti, salvo proroga, entro il 12 agosto 2004.

 

 

Formazione dei titolari di farmacia

I contenuti della formazione dei datori di lavoro che possono svolgere direttamente i compiti propri del responsabile del servizio di prevenzione e protezione sono i seguenti:

a)      quadro normativo in materia di sicurezza dei lavoratori e responsabilità civili e penali;

b)      organi di vigilanza e controlli nei rapporti con le aziende;

c)      tutela assicurativa, statistiche e registro infortuni;

d)      rapporti con i rappresentanti dei lavoratori;

e)      appalti, lavori autonomi e sicurezza;

f)       valutazione dei rischi;

g)      principali tipi di rischi e relative misure tecniche, organizzative e procedurali di sicurezza;

h)      dispositivi di protezione individuale;

i)        prevenzione incendi e piani di emergenza;

j)        prevenzione sanitaria;

k)      informazione e formazione dei lavoratori.

 

 

Formazione del rappresentante per la sicurezza

I contenuti della formazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza sono i seguenti:

a)      principi costituzionali e civili;

b)      legislazione generale e speciale in materia di prevenzione infortuni e igiene del lavoro;

c)      principali soggetti coinvolti e relativi obblighi;

d)      definizione ed individuazione dei fattori di rischio;

e)      valutazione dei rischi,

f)       individuazione delle misure (tecniche, organizzative, procedurali) di prevenzione e protezione;

g)      aspetti normativi dell’attività di rappresentanza dei lavoratori;

h)      nozioni di tecnica della comunicazione;

La durata dei corsi è di minimo 32 ore, fatte salve diverse determinazioni della contrattazione collettiva.

 

 

Giurisprudenza inerente responsabilità ulteriori in capo al datore di lavoro

Il datore di lavoro anche quando abbia affidato ad altri l’osservanza delle norme di prevenzione non cessa per questo motivo di essere il principale destinatario delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro Ne deriva che, se nonostante la delega, determinate circostanze portano il datore di lavoro a contatto con dipendenti mentre questi eseguono un lavoro nel disinteresse della normativa antinfortunistica, è suo dovere intervenire per rimuovere la  situazione antigiuridica (sentenza 14.02.92 Corte di Cassazione Penale).

L’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto (sentenza 14.10.92 Corte di Cassazione Penale).

In caso di inosservanza delle norme antinfortunistiche, al fine dell’esonero del datore di lavoro da responsabilità penale, non basta una delega di fatto conferita in relazione a compiti specifici ma occorre una delega formale che consenta di verificare congruamente quali siano i poteri conferiti al delegato ed entro quali limiti essi siano legittimamente esercitabili (sentenza 28.12.92 Corte di Cassazione Penale).

Al termine di questa breve disamina, soffermandomi più in generale a riflettere sul significativo fenomeno in continua evoluzione dell’articolata realtà di norme e di esigenze dell’azienda farmacia nel settore della sicurezza, mi appare sempre più auspicabile che ci si prodighi affinché si tenda a concorrere a mutare il comportamento nell’ambito dell’intero sistema di prevenzione e di sicurezza nel senso che da una concezione tecnica meramente oggettiva si passi ad una concezione dinamica della sicurezza globale intesa come partecipazione responsabile di tutti i soggetti interessati. Più in particolare, inoltre, è ovvio che ci si debba porre costantemente l’obiettivo principale di concorrere ad una concezione globale, lato sensu, della sicurezza, ovvero non solo di sviluppare l’analisi della gestione relativa alla sicurezza dei luoghi di lavoro e dei punti critici alimentari (haccp) bensì anche di approfondire, entro una più ampia ed articolata visione, quegli aspetti merceologici, tecnici, legali e gestionali professionali che hanno come denominatore comune la potenzialità di conferire sicurezza sia all’atto di detenzione e dispensazione del prodotto commercializzabile in farmacia sia a taluni rapporti con l’utenza e con i referenti istituzionali.

Considerando l’attività di detenzione e dispensazione del prodotto negoziabile in farmacia, un doveroso e costante ampliamento dell’analisi assimilata al concetto lato di sicurezza globale deriva dalle riflessioni possibili sull’attività di commercializzazione dei farmaci che, ai sensi dell’art. 2050 del Codice Civile, deve essere considerata pericolosa non solo perché espressamente qualificata tale da un articolato complesso di norme atte a garantire la pubblica salute ed incolumità, ma anche perché ad essa è connaturale un’apprezzabile potenzialità lesiva. La valutazione complessiva dei D.Lgs. 538, 539, 540 e 541 del 1992, infatti, che hanno analiticamente disciplinato vari aspetti riguardanti la commercializzazione dei farmaci, rende palese che il legislatore ha stimato quest’attività potenzialmente dannosa per la salute dell’uomo ed ha inteso sottoporla ad un penetrante controllo. Ma la potenzialità di danno non è che un pericolo di danno per cui l’attività potenzialmente dannosa, e per questo sottoposta a controlli, è un attività “pericolosa” ai sensi dell’art. 2050 del Codice Civile.

Nel contempo, anche per la Suprema Corte di Cassazione (15 luglio 1987, n. 6241) l’importazione e la distribuzione di farmaci sono da considerare attività pericolosa perché ad essa è connaturale una apprezzabile potenzialità lesiva in quanto sostanzialmente diffonde nel pubblico un rilevante pericolo di malattia derivato dalla natura stessa del mezzo adoperato.

Di fronte ad attività destinate con alto grado di probabilità a generare danni e, tuttavia, considerate lecite in virtù della loro utilità sociale, appare evidente che chi la esercita è considerato responsabile (in base ad una presunzione di colpa o a responsabilità oggettiva, a seconda della tesi) a meno che non provi di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. L’ulteriore approfondimento effettuato seguendo il filo su esposto del concetto globale lato sensu della sicurezza, anche correlato a taluni rapporti con l’utenza e con referenti istituzionali, è in grado, pertanto, di porre in condizioni di eliminare altri potenziali nessi eziologici esistenti tra l’esercizio dell’attività e un evento dannoso.

Tutto ciò senza né timori né scoraggiamenti per i contenuti di leggi e normative né, ovviamente, irrigidimento di fronte alle non poche problematiche che emergono nell’ambito dell’azienda farmacia.

L’auspicio formulabile, dunque, è che le norme di  sicurezza vengano sostanzialmente applicate più che con la forza derivante dalle leggi con la solidità derivante dalla consapevolezza che appartiene ad una più elevata cultura di vita e di professione. 

_________________

Abstract da:

Raimondo Villano “La gestione della sicurezza in Farmacia” - Standard Edition, Led Web International Editore, pag. 264, Torino,  ottobre 2004. 

Scarica l'allegato


Condividi su Facebook


Chiudi