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A13. Fede e amore

Fede e amore

Guglielmo di Saint-Thierry, amico e biografo di san Bernardo di Chiaravalle, esprime in una delle sue prime opere, intitolata “De natura et dignitate amoris (“La natura e la dignità dell’amore”),  una delle idee fondamentali, valida anche per noi(119):  l’energia principale che muove l’animo umano è l’amore. La natura umana, nella sua essenza più profonda, consiste nell’amare. In definitiva, un solo compito è affidato a ogni essere umano:  imparare a voler bene, ad amare, sinceramente, autenticamente, gratuitamente. Ma solo alla scuola di Dio questo compito viene assolto e l’uomo può raggiungere il fine per cui è stato creato.  “L’arte delle arti è l’arte dell’amore... L’amore è suscitato dal Creatore della natura. L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio(120)”.

Imparare ad amare richiede un lungo e impegnativo cammino, che è articolato da Guglielmo in quattro tappe, corrispondenti alle età dell’uomo:  l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. In questo itinerario la persona deve imporsi un’ascesi efficace, un forte controllo di sé per eliminare ogni affetto disordinato, ogni cedimento all’egoismo, e unificare la propria vita in Dio, sorgente, meta e forza dell’amore, fino a giungere al vertice della vita spirituale, che Guglielmo definisce come “sapienza”. A conclusione di questo itinerario ascetico, si sperimenta una grande serenità e dolcezza. Tutte  le  facoltà  dell’uomo  -  intelligenza, volontà, affetti - riposano in Dio, conosciuto e amato in Cristo. Secondo Guglielmo, poi, l’amore ha un’altra proprietà importante:  illumina l’intelligenza e permette di conoscere meglio e in modo profondo Dio e, in Dio, le persone e gli avvenimenti. La conoscenza che procede dai sensi e dall’intelligenza riduce, ma non elimina, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu. L’amore, invece, produce attrazione e comunione, fino al punto che vi è una trasformazione e un’assimilazione tra il soggetto che ama e l’oggetto amato. Questa reciprocità di affetto e di simpatia permette allora una conoscenza molto più profonda di quella operata dalla sola ragione. Si spiega così una celebre espressione di Guglielmo:  “Amor ipse intellectus est - già in se stesso l’amore è principio di conoscenza”. Non è proprio così nella nostra vita? Non è forse vero che noi conosciamo realmente solo chi e ciò che amiamo? Senza una certa simpatia non si conosce nessuno e niente!  E questo vale anzitutto nella conoscenza di Dio e dei suoi misteri, che superano la capacità di comprensione della nostra intelligenza:  Dio lo si conosce se lo si ama! Una sintesi del pensiero di Guglielmo di Saint-Thierry è contenuta in una lunga lettera indirizzata ai Certosini di Mont-Dieu. Il dotto benedettino Jean Mabillon già nel 1690 diede a questa lettera un titolo significativo: Epistola aurea (Lettera d’oro). In effetti, gli insegnamenti sulla vita spirituale in essa contenuti sono preziosi per tutti coloro che desiderano crescere nella comunione con Dio, nella santità.

In questo trattato Guglielmo propone un itinerario in tre tappe. Occorre - egli dice - passare dall’uomo “animale” a quello “razionale”, per approdare a quello “spirituale”.  Che cosa intende dire il nostro autore con queste tre espressioni? All’inizio una persona accetta la visione della vita ispirata dalla fede con un atto di obbedienza e di fiducia. Poi con un processo di interiorizzazione, nel quale la ragione e la volontà giocano un grande ruolo, la fede in Cristo è accolta con profonda convinzione e si sperimenta un’armoniosa corrispondenza tra ciò che si crede e si spera e le aspirazioni più segrete dell’anima, la nostra ragione, i nostri affetti. Si giunge così alla perfezione della vita spirituale, quando le realtà della fede sono fonte di intima gioia e di comunione reale e appagante con Dio. Si vive solo nell’amore e per amore.

Guglielmo fonda questo itinerario su una solida visione dell’uomo, ispirata agli antichi Padri greci, soprattutto ad Origene, i quali, con un linguaggio audace, avevano insegnato che la vocazione dell’uomo è diventare come Dio, che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L’immagine di Dio presente nell’uomo lo spinge verso la somiglianza, cioè verso un’identità sempre più piena tra la propria volontà e quella divina. A questa perfezione, che Guglielmo chiama “unità di spirito”, non si giunge con lo sforzo personale, sia pure sincero e generoso, perché è necessaria un’altra cosa. Questa perfezione si raggiunge per l’azione dello Spirito Santo, che prende dimora nell'anima e purifica, assorbe e trasforma in carità ogni slancio e ogni desiderio d’amore presente nell’uomo. “Vi è poi un’altra somiglianza con Dio”, leggiamo nell’Epistola aurea, “che viene detta non più somiglianza, ma unità di spirito, quando l’uomo diventa uno con Dio, uno spirito, non soltanto per l’unità di un identico volere, ma per non essere in grado di volere altro. In tal modo l’uomo merita di diventare non Dio, ma ciò che Dio è:  l’uomo diventa per grazia ciò che Dio è per natura” (Epistola aurea 262-263, SC 223, pp. 353-355). Questo autore, che potremmo definire il “Cantore dell’amore, della carità”, ci insegna ad operare nella nostra vita la scelta di fondo, che dà senso e valore a tutte le altre scelte:  amare Dio e, per amore suo, amare il nostro prossimo; solo così potremo incontrare la vera gioia, anticipo della beatitudine eterna.

Mettiamoci, quindi, alla scuola dei Santi per imparare ad amare in modo autentico e totale, per entrare in questo itinerario del nostro essere. A questa prima serie di riflessioni, poi, è di ulteriore giovamento  l’approfondimento che Sua Santità Benedetto XVI effettua su altri aspetti della dottrina di  San Bonaventura da Bagnoregio e di San Tommaso d’Aquino(121). San Bonaventura è un eminente teologo, che merita di essere messo accanto all’altro grandissimo pensatore, suo contemporaneo, san Tommaso d’Aquino. Entrambi hanno scrutato i misteri della Rivelazione, valorizzando le risorse della ragione umana, in quel fecondo dialogo tra fede e ragione che caratterizza il Medioevo cristiano, facendone un’epoca di grande vivacità intellettuale, oltre che di fede e di rinnovamento ecclesiale, spesso non sufficientemente evidenziata. Nonostante tutti questi aspetti, si possono cogliere nei due grandi Santi due diversi approcci alla ricerca filosofica e teologica, che mostrano l’originalità e la profondità di pensiero dell’uno e dell’altro. Una prima differenza concerne il concetto di teologia. Ambedue i dottori si chiedono se la teologia sia una scienza pratica o una scienza teorica, speculativa. San Tommaso riflette su due possibili risposte contrastanti. La prima dice:  la teologia è riflessione sulla fede e scopo della fede è che l’uomo diventi buono, viva secondo la volontà di Dio. Quindi, lo scopo della teologia dovrebbe essere quello di guidare sulla via giusta, buona; di conseguenza essa, in fondo, è una scienza pratica. L’altra posizione dice:  la teologia cerca di conoscere Dio. Noi siamo opera di Dio; Dio sta al di sopra del nostro fare. Dio opera in noi l’agire giusto. Quindi si tratta sostanzialmente non del nostro fare, ma del conoscere Dio, non del nostro operare. La conclusione di san Tommaso è:  la teologia implica ambedue gli aspetti:  è teorica, cerca di conoscere Dio sempre di più, ed è pratica:  cerca di orientare la nostra vita al bene. Ma c’è un primato della conoscenza:  dobbiamo soprattutto conoscere Dio, poi segue l’agire secondo Dio (Summa Theologiae ia, q. 1, art. 4). Questo primato della conoscenza in confronto con la prassi è significativo per l'orientamento fondamentale di san Tommaso. La risposta di san Bonaventura è molto simile, ma gli accenti sono diversi. San Bonaventura conosce gli stessi argomenti nell’una e nell’altra direzione, come san Tommaso, ma per rispondere alla domanda se la teologia sia una scienza pratica o teorica, san Bonaventura fa una triplice distinzione - allarga, quindi, l’alternativa tra teorico (primato della conoscenza) e pratico (primato della prassi), aggiungendo un terzo atteggiamento, che chiama “sapienziale” e affermando che la sapienza abbraccia ambedue gli aspetti. E poi continua:  la sapienza cerca la contemplazione (come la più alta forma della conoscenza) e ha come intenzione “ut boni fiamus” - che diventiamo buoni, soprattutto questo:  divenire buoni (cfr. Breviloquium, Prologus, 5). Poi aggiunge:  “La fede è nell’intelletto, in modo tale che provoca l’affetto. Ad esempio:  conoscere che Cristo è morto ‘per noi’ non rimane conoscenza, ma diventa necessariamente affetto, amore” (Proemium in i Sent., q. 3). Nella stessa linea si muove la sua difesa della teologia, cioè della riflessione razionale e metodica della fede. San Bonaventura elenca alcuni argomenti contro il fare teologia, forse diffusi anche in una parte dei frati francescani e presenti anche nel nostro tempo:  la ragione svuoterebbe la fede, sarebbe un atteggiamento violento nei confronti della parola di Dio, dobbiamo ascoltare e non analizzare la parola di Dio (cfr. Lettera di san Francesco d’Assisi a sant'Antonio di Padova). A questi argomenti contro la teologia, che dimostrano i pericoli esistenti nella teologia stessa, il Santo risponde:  è vero che c’è un modo arrogante di fare teologia, una superbia della ragione, che si pone al di sopra della parola di Dio. Ma la vera teologia, il lavoro razionale della vera e della buona teologia ha un’altra origine, non la superbia della ragione. Chi ama vuol conoscere sempre meglio e sempre più l’amato; la vera teologia non impegna la ragione e la sua ricerca motivata dalla superbia, “sed propter amorem eius cui assentit” - “motivata dall’amore di Colui, al quale ha dato il suo consenso” (Proemium in i Sent., q. 2), e vuol meglio conoscere l’amato:  questa è l’intenzione fondamentale della teologia.

Per san Bonaventura è quindi determinante alla fine il primato dell’amore. 

Di conseguenza, san Tommaso e san Bonaventura definiscono in modo diverso la destinazione ultima dell’uomo, la sua piena felicità:  per san Tommaso il fine supremo, al quale si dirige il nostro desiderio è:  vedere Dio. In questo semplice atto del vedere Dio trovano soluzione tutti i problemi:  siamo felici, nient’altro è necessario. Per san Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è invece:  amare Dio, l’incontrarsi ed unirsi del suo e del nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della nostra felicità. In tale linea, potremmo anche dire che la categoria più alta per san Tommaso è il vero, mentre per san Bonaventura è il bene. Sarebbe sbagliato vedere in queste due risposte una contraddizione. Per ambedue il vero è anche il bene, ed il bene è anche il vero; vedere Dio è amare ed amare è vedere. Si tratta quindi di accenti diversi di una visione fondamentalmente comune. Ambedue gli accenti hanno formato tradizioni diverse e spiritualità diverse e così hanno mostrato la fecondità della fede, una nella diversità delle sue espressioni. Ritornando a san Bonaventura, è evidente che l’accento specifico della sua teologia, del quale si è dato solo un esempio, si spiega a partire dal carisma francescano:  il Poverello di Assisi, al di là dei dibattiti intellettuali del suo tempo, aveva mostrato con tutta la sua vita il primato dell’amore; era un’icona vivente e innamorata di Cristo e così ha reso presente, nel suo tempo, la figura del Signore - ha convinto i suoi contemporanei non con le parole, ma con la sua vita. In tutte le opere di san Bonaventura, proprio anche le opere scientifiche, di scuola, si vede e si trova questa ispirazione francescana; si nota, cioè, che egli pensa partendo dall’incontro col Poverello d’Assisi. Ma per capire l’elaborazione concreta del tema “primato dell’amore”, dobbiamo tenere presente ancora un'altra fonte:  gli scritti del cosiddetto Pseudo-Dionigi, un teologo siriaco del vi secolo, che si è nascosto sotto lo pseudonimo di Dionigi l’Areopagita, accennando, con questo nome, ad una figura degli Atti degli Apostoli (cfr. 17, 34). Questo teologo aveva creato una teologia liturgica e una teologia mistica, ed aveva ampiamente parlato dei diversi ordini degli angeli. I suoi scritti furono tradotti in latino nel IX secolo; al tempo di san Bonaventura, nel XIII secolo, appariva una nuova tradizione che provocò l’interesse del Santo e degli altri teologi del suo secolo.

Due cose attiravano in modo particolare l’attenzione di san Bonaventura:  

1. lo Pseudo-Dionigi parla di nove ordini degli angeli, i cui nomi aveva trovato nella Scrittura e poi aveva sistemato a suo modo, dagli angeli semplici fino ai serafini. San Bonaventura interpreta questi ordini degli angeli come gradini nell’avvicinamento della creatura a Dio. Così essi possono rappresentare il cammino umano, la salita verso la comunione con Dio. Per san Bonaventura non c’è alcun dubbio:  san Francesco d’Assisi apparteneva all’ordine serafico, al supremo ordine, al coro dei serafini, cioè:  era puro fuoco di amore. E così avrebbero dovuto essere i francescani. Ma san Bonaventura sapeva bene che questo ultimo grado di avvicinamento a Dio non può essere inserito in un ordinamento giuridico, ma è sempre un dono particolare di Dio. Per questo la struttura dell’Ordine francescano è più modesta, più realista, ma deve, però, aiutare i membri ad avvicinarsi sempre più ad un’esistenza serafica di puro amore.

2. san Bonaventura ha trovato negli scritti dello Pseudo-Dionigi un altro elemento, per lui ancora più importante. Mentre per sant’Agostino l’intellectus, il vedere con la ragione ed il cuore, è l’ultima categoria della conoscenza, lo Pseudo-Dionigi fa ancora un altro passo:  nella salita verso Dio si può arrivare ad un punto in cui la ragione non vede più. Ma nella notte dell’intelletto l’amore vede ancora - vede quanto rimane inaccessibile per la ragione. L’amore si estende oltre la ragione, vede di più, entra più profondamente nel mistero di Dio. San Bonaventura fu affascinato da questa visione, che s’incontrava con la sua spiritualità francescana. Proprio nella notte oscura della Croce appare tutta la grandezza dell’amore divino; dove la ragione non vede più, vede l’amore. Le parole conclusive del suo “Itinerario della mente in Dio”, ad una lettura superficiale, possono apparire come espressione esagerata di una devozione senza contenuto; lette, invece, alla luce della teologia della Croce di san Bonaventura, esse sono un’espressione limpida e realistica della spiritualità francescana:  “Se ora brami sapere come ciò avvenga (cioè la salita verso Dio), interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; ... non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio” (vii, 6). Tutto questo non è anti-intellettuale e non è anti-razionale:  suppone il cammino della ragione, ma lo trascende nell’amore del Cristo crocifisso. Con questa trasformazione della mistica dello Pseudo-Dionigi, san Bonaventura si pone agli inizi di una grande corrente mistica, che ha molto elevato e purificato la mente umana:  è un vertice nella storia dello spirito umano. Questa teologia della Croce, nata dall’incontro tra la teologia dello Pseudo-Dionigi e la spiritualità francescana, non ci deve far dimenticare che san Bonaventura condivide con san Francesco d’Assisi anche l’amore per il creato, la gioia per la bellezza della creazione di Dio. Va citata su questo punto una frase del primo capitolo dello “Itinerario”:  “colui... che non vede gli splendori innumerevoli delle creature, è cieco; colui che non si sveglia per le tante voci, è sordo; colui che per tutte queste meraviglie non loda Dio, è muto; colui che da tanti segni non si innalza al primo principio, è stolto” (i, 15). Tutta la creazione parla ad alta voce di Dio, del Dio buono e bello, del suo amore. Tutta la nostra vita è quindi per san Bonaventura un “itinerario”, un pellegrinaggio, una salita verso Dio. Ma con le nostre sole forze non possiamo salire verso l’altezza di Dio. Dio stesso deve aiutarci, deve “tirarci” in alto. Perciò è necessaria la preghiera. La preghiera - così dice il Santo - è la madre e l’origine della elevazione - “sursum actio”, azione che ci porta in alto - dice Bonaventura.

A conclusione, è molto bella questa riflessione sull’amore ad opera del Cardinale Ratzinger, presente in un’opera di recente ristampata: “Spira già il soffio di un tempo nuovo in cui il desiderio dello splendore dell’altro mondo è plasmato da un profondo amore per questa terra sulla quale noi viviamo(122)”.

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(119) Benedetto XVI, Catechesi su di Guglielmo di Saint-Thierry  all’udienza generale, Città del Vaticano 2 dicembre 2009.

(120) Guglielmo di Saint-Thierry, La natura e la dignità dell’amore (1, PL 184, 379).

(121) Benedetto XVI, Catechesi dell’Udienza Generale, Città del Vaticano 17 marzo 2010. 

(122) Cardinale Joseph Ratzinger, San Bonavetura. La teologia della storia. Edizioni Porziuncola, Assisi, 2008.

 

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Abstract da:

Raimondo Villano “Logos e teofania nel tempo digitale”, Parte II, Capitolo IX, Chiron, giugno 2012, pag. 260.

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