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A14. Fede e arte

Fede e arte

Come confessava il grande pittore catalano Joan Miró, l’arte non ha il compito di descrivere il visibile, ma di cogliere nel visibile l’Invisibile. Anche un poeta, Jules Laforgue, nei suoi Complaintes, proclamava che “l’arte è l’Inconnu, l’Ignoto, il Mistero”. Già il salmista esortava i fedeli così:  “Cantate a Dio con arte!” (Salmi, 47, 8). I tre noti e imprescindibili fondamentali dell’estetica cattolica Integritas, Proportio, Splendor formaepossono essere riassunti nella richiesta di “Bellezza della Verita”. L’unita, la verita, la bontà e la bellezza concorrono in modo determinante e insostituibile alla piena comprensione del Sacro trinitario e della liturgia che ne discende: ne costituiscono lo statuto fondamentale, qualificano la natura stessa della Res sacra e a un tempo della relazione di dipendenza con essa del fedele riunito a Cristo e alla Chiesa. 

Se “pulchrum est quod visum placet”, ossia “bello è cio che visto piace”, l’arte sacra deve per sua natura “poter piacere e dilettare sommamente e tutti”. Il principio di somiglianza, così come governa la liturgica relazione generativa tra Padre e Figlio, governa anche, se pur in via subordinata e analogica, la liturgica relazione fuori della Trinità quando realizzata da altri uomini che non siano il Cristo: quello di Cristo è il Modello carnale perfetto (determinato dai due sacri Nomi riconosciuti da san Tommaso e san Bonaventura Verbum e Imago) compiuto sulla terra della liturgica relazione spirituale compiuta dal Figlio nei Cieli. L’Incarnazione del Signore è principio e fonte dell’arte sacra. Un’arte che irrida, non rispetti fedelmente, o perda il dogma dell’Incarnazione, rinnegando in una nuova iconoclastia il Verbum e l’Imago attraverso l’astrattismo, la rinuncia alle forme o la rinuncia tout court a ogni rappresentazione, è incompatibile con  la definizione di “arte sacra cattolica”. L’arte, inoltre, non può essere intesa anche come “ancella della liturgia” ed essere in tutte le sue forme coerente con l’affermazione dell’Areopagita che la intende quale “rappresentazione visibile di spettacoli ‘misteriosi e soprannaturali’ tanto quanto fortissimamente reali”.

Né percorso parallelo e intima integrazione dell’arte con la liturgia ne concludono altresi il senso. L’opera artistica e architettonica, a differenza della liturgia, permane anche dopo la conclusione della liturgia stessa. Essa ha perciò il compito aggiuntivo di essere una eco della liturgia, una volta che questa sia terminata. 

Pertanto la decorazione della chiesa e la sua struttura architettonica hanno un’inalienabile funzione pedagogica e protrettica verso la fedeltà al messaggio evangelico e liturgico, che così anticipa e protrae la comunicazione con il Signore nella Sua dimora(123). “Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia”.  Si può comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis a Parigi: “Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro. Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta”. 

Giova, a questo punto, sottolineare due elementi utili dell’arte romanica e gotica.

Il primo:  i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si considera l’anima religiosa che li ha ispirati. Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che ‘i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia’.

Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile.

Secondo elemento:  la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino:  ‘Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria:  anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno:  guardaci, siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?’ (Sermo ccxli, 2:  pl 38, 1134)(124)”. 

L’auspicio è che possa aiutarci “il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio(125)”.  L’arte, tuttavia, ha lasciato il tempio, ha relegato su uno scaffale polveroso le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure, le parabole sacrali e si è avviata lungo le strade ‘laiche’ della contemporaneità. Ha abbandonato la concezione secondo la quale l’opera artistica incarna una visione trascendente dell’essere, anzi, ‘crea un mondo’ per usare le parole del filosofo Heidegger, e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali e persino a pure e semplici provocazioni. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il primo Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con la ricerca di una costante epifania di bellezza e di mistero, come accadeva nel passato(126)”. Ora spesso questo non accade più, perché si teme sempre che sia in agguato la dedizione funzionale e servile dell’arte a un messaggio, a una ‘verità’, a una ‘bellezza’.

Si può intravedere questo sospetto nei confronti dell’arte anche in una certa teologia, timorosa di derive “idolatriche”. D’altronde, è ben noto il monito biblico del Decalogo a “non farsi immagine alcuna” di Dio (Esodo, 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d'oro, materializzazione del divino. Questa catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è necessaria. In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua Teologia del XII secolo, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono “soltanto illustrazioni estetiche”, ma dei veri “luoghi teologici”.

Alla radice di questo c’è il cuore stesso del messaggio cristiano, l’Incarnazione.

Essa, infatti, rende visibile Dio che in Cristo - come afferma san Paolo - ha la sua èikon, la sua “icona-immagine” perfetta (Colossesi, 1, 15). Anzi, la Genesi riconosceva nella stessa umanità la “immagine e la somiglianza divina” (1, 26-27). E Dionigi l’Areopagita, pseudonimo di un originale teologo del V-VI secolo, riconoscendo che in Gesù Cristo si ha ‘il visibile dell’Invisibile’, preparava in un certo senso l’analogia dell’arte così come la concepirà Miró nella frase che abbiamo sopra citato.

Alla luce di quanto si è detto, si comprendono, allora, le parole della “Lettera agli artisti”di Giovanni Paolo II:  “In un certo senso, l’icona è un sacramento:  analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell'Incarnazione”. Vi è la convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell'incontro tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell’essere, a svelare l’epifania del mistero, a conquistare l’infinito e l’eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà.

‘Estetica’, infatti, deriva dal greco àisthesis che è la ‘percezione’:  è discernere il lato spirituale di ogni atto sensibile, è decifrare il ‘senso spirituale’ che si cela in ogni gesto, evento, realtà che vengono percepiti ed espressi ‘sensibilmente’. È ciò che lo scrittore Hermann Hesse delineava in modo esplicito nel suo saggio su Klein e Wagner, ricorrendo a questa definizione:  ‘Arte significa:  dentro a ogni cosa mostrare Dio’. 

“Certo, anche nel passato secolare della storia cristiana non sono mancate le cesure che hanno spezzato quel legame e hanno sostituito il silenzio a quelle voci. La catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è necessaria, ma si è andati oltre. Teologia e teologi, come si diceva, si sono non di rado votati esclusivamente  alla riflessione sistematica, eliminando segni e simboli, considerati come una nebbia rispetto al cielo cristallino del pensiero e della logica formale. In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua ‘Teologia del XII secolo’, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono ‘soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri ‘luoghi teologici’.

Si ritorna, così, alla convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell’incontro tra l’artista e la trascendenza, tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell’essere, a svelare l’epifania del mistero, a conquistare l’infinito e l’eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà(127)”.

“Di fronte a questa divaricazione tra la fede (o più genericamente la trascendenza) e l’arte, divaricazione che non può essere colmata con il mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato glorioso, Benedetto XVI ha voluto riproporre, nelle attuali coordinate culturali, un nuovo incontro con gli artisti, nella gamma molteplice che tale termine comporta e che ora va oltre architettura, pittura, scultura, letteratura, musica, comprendendo le nuovi arti come il cinema, il design, la video-art, la fotografia e così via.

Per usare le parole di un artista che ha testimoniato sempre questo incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, “i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia”. Essa è stata, infatti, l’atlante iconografico per eccellenza, un ‘immenso vocabolario’ della cultura, come la definiva il poeta francese Paul Claudel. È significativa, perciò, la professione di principio che facevano i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d’arte:  ‘Noi siamo manifestatori, agli uomini che non conoscono la lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede’. 

Era talmente stretto questo legame che già sei secoli prima, il cantore delle immagini della Chiesa d’Oriente, san Giovanni Damasceno, giungeva al punto di avanzare questa proposta:  ‘Se un pagano viene e ti dice:  Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri’. Questo incontro dell’arte con la liturgia e la spiritualità ha generato quello straordinario patrimonio che ha abbellito secoli e secoli di storia occidentale(128)

Il pittore Georges Braque in modo folgorante affermava, nel suo saggio “Il giorno e la notte”, che “l’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura”. Ai nostri giorni l’arte vuole ancora turbare, ma lo fa solo scandalizzando e provocando, non più inquietando le coscienze, le menti e i cuori, costringendoli ad affacciarsi sull’abisso dell’Infinito, dell’Oltre, dell’Altro. 

Vi è, poi, la ‘voce dei monumenti’(129).

Sì, non solo quegli affreschi e quelle architetture mirabili, ma ogni espressione d’arte, di letteratura, di musica e persino  di  un certo cinema a noi vicino - si pensi a Bresson, Dreyer, Bergman, tanto per evocare una celebre triade - diventa voce che ci conduce ‘all’etterno dal tempo’, per usare un’icastica formula dantesca (Paradiso xxxi, 38) (130)”. 

Da una parte bisogna mantenere la tradizione, la nostra ricchezza, la nostra eredità.

Da un’altra parte è importante mantenere l’audacia.

 “L’audacia è stata sempre la norma fondamentale all’interno della storia della cristianità. Se proviamo per un momento a pensare al Cinquecento, con una liturgia accompagnata da una musica che per sua natura aveva dei procedimenti di tipo monodico, come il gregoriano, con la sua purezza assoluta, ecco che arriva Palestrina e introduce la polifonia. È una rivoluzione sconcertante (...) Ammettere questo scardinamento di un modulo liturgico codificato per secoli dimostra senza dubbio audacia. Se pensiamo a tutti i passaggi degli stili architettonici, dal romanico al gotico, sono esempi di audacia. Quando a Roma lasciano imperversare Borromini - che comincia a concepire la superficie come plastica, cioè l’elemento della facciata che diventa mobile, oppure della cupola che viene concepita in una maniera assolutamente trasformata e trasfigurata, quasi fosse materiale plastico - questo era indubbiamente qualcosa che sconcertava. Grande era, dunque, la sensibilità di chi capiva che, da un lato, bisognava ancora custodire la dimensione sacrale di quel luogo e dall’altro si doveva però esprimere un linguaggio che stava ormai mutando.

Tradizione e audacia vanno di pari passo, ma questo naturalmente comporta che bisogna avere un continuo dialogo(131)”.

Bisogna evitare, però, la confusione tra arte sacra e arte religiosa. 

Tale confusione nasce dal fatto che chi ha deciso di dettare le regole in materia di arte sacra e di beni culturali ecclesiastici, in deroga al canone 1216 del Codex iuris canonici, ha creato un grande equivoco. Infatti, da una parte pone le sue basi su una malintesa lettura della costituzione del Vaticano II Sacrosanctum concilium e dall’altra non ha mai chiarito le differenze sostanziali tra chiesa come tempio e chiesa come aula assembleare. 

Nonostante il documento del Vaticano II dichiari che ‘eventuali variazioni - che non riguardano la natura immutabile della liturgia - debbano avvenire esclusivamente in continuità con la sana Tradizione’, in questi ultimi trent’anni si sono perpetrati scempi ingiustificabili per trasformare forzatamente chiese da pianta basilicale a pianta centrale. Questa forzatura non solo ha inciso sulla perdita d’identità della chiesa tradizionale, ma ha condizionato i progetti di nuove chiese, al punto che queste vengono realizzate solo ed esclusivamente a pianta centrale. Tali aule, aspiranti chiese, sono inoltre caratterizzate dall’assenza delle tradizionali coordinate sacre, primo tra tutti il tabernacolo, che viene relegato in un luogo nascosto. 

Assodato che queste innovazioni non sono assolutamente fondate su precetti conciliari e che creano solo sconcerto e confusione tra i fedeli, l’interrogativo che emerge è perché diano state approvate. 

D’altro canto, occorre considerare che la prima delle quattro Costituzioni conciliari, quella promulgata il 4 dicembre 1963, ammoniva che “per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via a un legittimo progresso non si introducessero innovazioni se non quando lo richiedesse una vera e accertata utilità della Chiesa, con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle esistenti”. Parole relative all’innovazione liturgica che potevano però ragionevolmente estendersi anche all’innovazione delle forme e delle tipologie architettoniche. 

Il clima culturale degli anni Sessanta del secolo scorso, ancora fortemente influenzato dalla fiducia illimitata nelle rivoluzioni, favorì da parte degli architetti, una interpretazione radicale del “legittimo progresso” e una sovrana indifferenza per la “sana tradizione”, vista come ostacolo a una radicale palingenesi basata sulla tabula rasa. 

“Anzitutto venne messa in discussione la sacralità dell’edificio religioso affrontando il tema della differenza tra Chiesa spirituale e chiesa costruita, contrapponendo nozioni di cui la tradizione indicava invece la complementarità, come la Domus Ecclesiae e la Domus Dei, la Chiesa come corpo mistico di Cristo e come popolo di Dio, la Chiesa di Dio e la Chiesa degli uomini. Dei poli liturgici tradizionali - l’altare, l’ambone, il tabernacolo, il battistero - venne ridiscussa la collocazione e i rapporti di ciascuno di essi con la comunità dei fedeli ai quali il Concilio richiedeva una partecipazione attiva. Di alcuni problemi, come quello di stabilire un equilibrio tra l’altare e l’ambone vennero proposte soluzioni paradossali, come quella di dividere i fedeli in due schiere contrapposte ponendo altare e ambone agli estremi del corridoio compreso tra i due fronti separati. Gli elementi architettonici mantenutisi nei secoli come invarianti:  l’abside, le navate, la struttura cruciforme, il tiburio o la cupola come sorgente di luce, vennero generalmente rifiutati come inutili ai fini della configurazione di un nuovo spazio comunitario accentrato caratterizzato dall'orientamento del sacerdote verso i fedeli. 

La parola chiesa, come è noto, deriva da ecclesìa, che come scrive san Cirillo di Gerusalemme deriva a sua volta da ekkaleìsthai, chiamare a raccolta. La Chiesa quindi, come realtà spirituale è etimologicamente l’assemblea di coloro che sono chiamati dal Signore, mentre la chiesa come edificio deriva probabilmente dal greco kyriakòn, che significa semplicemente ciò che è proprio del Signore.

Il significato che il termine assemblea aveva assunto negli anni del Concilio, come luogo di accese interminabili discussioni, così come la nozione di partecipazione, simbolo di democrazia diretta, dettero un valore simbolico improprio alla assemblea dei fedeli, chiamati a partecipare attivamente non a una discussione, ma all’azione liturgica in quanto soggetti di un “sacerdozio regale”.

Nacque così la chiesa-teatro, con platea digradante o la chiesa quadrata priva di orientamento come un’arena da intrattenimento.

In tempi recenti la moda del cosiddetto minimalismo ha riportato in auge una specie di iconoclastia, fino a escludere la croce e le immagini sacre e a spogliare l’immagine esterna di ogni residua analogia con le chiese tradizionali. 

Sotto il profilo urbanistico, la presa d’atto della perdita di centralità dell’edificio, condizionato dalla logica dello zoning, che assegna all’edificio religioso, nei piani territoriali, un lotto spesso residuale, condusse spesso gli architetti a un inane tentativo di imporre la presenza della chiesa, in mezzo ai volumi incombenti della periferia-dormitorio, attraverso una scomposta gestualità scultorea. 

Accanto agli eccessi non sono certo mancati, negli ultimi cinquanta anni, esempi di notevole valore artistico e religioso, ma non è facile, nella pluralità e diversità delle esperienze, individuare una convergenza di indirizzi che possa preparare un rinnovamento non contraddittorio ma sostanziale, inaugurando nuove tipologie condivise, tali da poter finalmente realizzare l’indicazione conciliare che, a proposito del rinnovamento liturgico auspicava “nuove forme che scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle preesistenti”. 

Fondamentale è l’apporto al confronto tra Chiesa spirituale e chiesa costruita e, di conseguenza, il chiarimento della differenza tra tempio pagano e chiesa cristiana. “Per la religione pagana - scrive il Papa - il rito visibile costituisce l’intero culto e anche la divinità cui è rivolto non vien concepita come una grandezza dell’al di là, la quale venga effigiata e rappresentata in forme visibili solo come indicazione. Questi dati visibili sono invece proprio il numen cui è diretta la venerazione e il quale si mostra così immediatamente raggiungibile. Con una parola, nel culto pagano (così come Agostino ha imparato a conoscerlo e lo ha inteso) non ci sono simboli, bensì solo realtà. In contrapposto, il culto cristiano, in quanto rito, è un espresso culto simbolico” (Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, p. 249). 

La Chiesa è costruzione spirituale fatta, come scrive san Pietro, di pietre viventi che sono gli stessi fedeli, connessi alla pietra angolare rigettata che “è l'immagine di Colui che ha preso su di sé la sofferenza mortale dell'amore radicale e così è diventato spazio per noi tutti, pietra angolare, che dell'umanità dilacerata fa una dimora vivente, una nuova famiglia” (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 199). 

“Le costruzioni in cui la fede si esprime sono per così dire speranza resa presente e affermazione fiduciosa di ciò che essa può divenire già ora nel presente” (ivi, p. 110). 

Alla luce di questi insegnamenti è ancora possibile attribuire alla chiesa costruita il solo valore di un involucro neutrale? Agostino definisce l’edificio ecclesiale ‘mater ecclesia in quanto rappresenta il popolo di Dio, ne esprime l’identità e come luogo dell’azione liturgica è un appello ai cristiani a far accadere anche nella loro coscienza ciò che vedono e ascoltano nello spazio sacro.

“Il tempio è innanzitutto il luogo dove abita Dio, lo spazio della sua presenza nel mondo. È perciò il luogo dell’adunanza, lo spazio in cui il patto di alleanza ha luogo sempre di nuovo. È il luogo dell’incontro di Dio con il suo popolo, il quale così ritrova  se  stesso.  È  il luogo da  cui  promana  la parola di Dio, la sede visibile cui è orientato il modello della sua istruzione”(ivi, p. 200). 

Le considerazioni qui riportate incoraggiano chi deve progettare una chiesa a impegnarsi in profondità a dar forma allo spazio ecclesiale che può e forse deve rispecchiare il senso e la vita della Chiesa spirituale e rafforzare nei fedeli la coesione e la speranza, “giacché la costruzione degli uomini mira alla durata, alla tranquillità, alla familiarità, alla libertà. È una dichiarazione ostile contro la morte, contro la solitudine, contro la paura. Per questo la volontà di costruire degli uomini si adempie nella costruzione del tempio, in quella costruzione in cui si invita Dio a entrare” (ivi, p. 100). 

Altre considerazioni ancora più specifiche del Papa possono chiarire quanto di insoddisfacente è avvenuto negli ultimi decenni segnalando come obbiettive carenze alcuni orientamenti prevalsi sia nelle indicazioni dei liturgisti che nelle concrete operazioni progettuali degli architetti. Sono tre, in particolare, queste carenze:  la perdita della dimensione cosmica della liturgia, la perdita del suo carattere dinamico, la mancata accettazione della sfida imposta dalla dimensione epocale. 

La dimensione cosmica era la ragione profonda che suggeriva la preghiera rivolta verso Oriente, luogo di origine della Luce e simbolo del Cristo veniente.

L’orientamento dei fedeli verso il sacerdote, non prescritto dal Concilio Vaticano II, ma adottato poi come regola, se ha favorito l’auspicata actuosa partecipatio e la comprensione dell’evento liturgico ha, però, involontariamente messo in ombra che “il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo” (La festa della fede, p. 112). 

“La furia iconoclasta, i cui primi segni in Germania risalgono comunque già agli anni Venti, ha portato ad accantonare molto kitsch e molte opere indegne, ma, in definitiva, si è anche lasciata dietro un vuoto, di cui noi oggi torniamo a percepire con chiarezza tutta la miseria.

Come si andrà avanti?

In epoca contemporanea non si sperimenta solo una crisi dell’arte sacra ma una crisi dell’arte in quanto tale, e con un’intensità finora sconosciuta. La crisi dell’arte è un altro sintomo della crisi dell’umanità, che proprio nell’estrema esasperazione del dominio materiale del mondo è precipitata nell’accecamento di fronte alle grandi questioni dell’uomo, a quelle domande sul destino ultimo dell’uomo che vanno oltre la dimensione materiale. Questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito. Alla domanda su come dobbiamo vivere, su come dobbiamo affrontare la morte, se la nostra esistenza abbia un fine e quale, a tutte queste domande non ci sono più risposte comuni. Il positivismo, formulato in nome della serietà scientifica, restringe l’orizzonte a ciò che è dimostrabile, a ciò che può essere verificato nell’esperimento; esso rende il mondo opaco. Contiene ancora la matematica, ma il Lògos, che è il presupposto di questa matematica e della sua applicabilità, non vi compare più. Allora il nostro mondo delle immagini non supera più l’apparenza sensibile e lo scorrere delle immagini che ci circondano significa, allo stesso tempo, anche la fine dell’immagine:  oltre ciò che può essere fotografato non c’è più nulla da vedere.

A questo punto, però, non è impossibile solamente l’arte delle icone, l’arte sacra, che si fonda su uno sguardo che si apre in profondità; l’arte stessa, che in un primo momento aveva sperimentato nell’impressionismo e nell’espressionismo le possibilità estreme della visione sensibile, resta priva di un oggetto, in senso letterale. L’arte diventa sperimentazione con mondi che si crea da sé, una vuota “creatività”, che non percepisce più lo “Spirito Creatore”. Essa tenta di prendere il suo posto e non riesce a fare altro che produrre l’arbitrario e il vuoto, che rendere l’uomo cosciente dell’assurdità della sua “pretesa creatrice” (Introduzione allo spirito della liturgia, pp. 126-127). 
Con queste parole, dure e precise si chiede, agli artisti che credono, di impegnarsi in una sfida contro quella “vuota creatività” che non percepisce più lo “Spirito Creatore”. “La chiesa - si legge nella Costituzione conciliare sulla sacra liturgia - non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma secondo l'indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca”.

È giusto, sulla base di questa considerazione ineccepibile, accontentarsi di cantare in coro lo “spirito del tempo”?

Di un tempo che celebra la “morte di Dio” annunciata da Nietzsche, come un destino universale al quale non ci si può sottrarre?

All’alba del cristianesimo quale era lo spirito del tempo?

Quello dei martiri e degli apostoli o quello dell’edonismo della Roma imperiale? 

L’impegno per un’arte sacra del nostro tempo ha precedenti di straordinaria qualità e rigore, da Rouault a Manzù, da Gaudí ad Aalto, da Schwarz a Michelucci.

Per chi accetta la sfida c’è una strada maestra su cui procedere in avanti. “Anche oggi - si legge nell’Introduzione allo spirito della liturgia - la gioia in Dio e l’incontro con la sua presenza nella liturgia sono una forza inesauribile di ispirazione. Gli artisti che si sottopongono a questo compito non devono davvero sentirsi come la retroguardia della cultura, la libertà vuota da cui escono diventerà per essi motivo di disgusto. L’umile sottomissione a ciò che li precede è origine della libertà reale e li conduce alla vera altezza della nostra vocazione di uomini(132)”. 

Un grande Papa intellettuale del rango di Benedetto XVI, un filosofo e un teologo del suo livello, non poteva non essere sensibile agli argomenti già affrontati con straordinario profetico coraggio da Paolo VI negli anno Sessanta del secolo scorso.

Ed in effetti, il Santo Padre considera che tra Chiesa e mondo dell’arte  vi è  “un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali(133)”.  

Paolo VI  nel 1964(134) ebbe a dire: “Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione... voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità” (Insegnamenti ii, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite:  “E se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte(135)” (Ibid., 314).

Il legame profondo tra bellezza e speranza costituisce anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965 proclamando solennemente:  “A voi tutti la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce:  se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici(136)!”. Ed aggiungendo:  “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione.

E questo grazie alle vostre mani... Ricordatevi che siete i custodi della bellezza  nel  mondo” (Ibid.). 

Inoltre, “l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall'oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello. 

Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare ‘scossa’, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo ‘risveglia’ aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che si sta per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere:  ‘L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui’. Gli fa eco il pittore Georges Braque:  ‘L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura(137)’”.

La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza.

La ricerca della bellezza di cui si parla, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell'irrazionale o nel mero estetismo. Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa.

L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano”. “Giovanni Paolo II nella Lettera agli Artisti afferma nella conclusione:  ‘La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente’ (n. 16). Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella riflessione.

La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio in virtù della sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza,  con i temi fondamentali  da cui deriva il senso del vivere,

può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di ‘figure’ - in senso lato - che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti. 

Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica.

Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata ‘Gloria’, un’estetica teologica, con queste suggestive espressioni:  ‘La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto’. E conclude:  ‘Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che - segretamente o apertamente - non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare’. Simone Weil scriveva a tal proposito:  ‘In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l'incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa’. Ancora più icastica è l’affermazione di Hermann Hesse:  ‘Arte significa:  dentro a ogni cosa mostrare Dio’. Facendo eco alle parole di Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti:  ‘Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte’(Lettera agli Artisti, n. 12)(138).

Gli artisti, dunque, sono i “custodi della bellezza(139)”, hanno, grazie al loro “talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano(140)”. Devono essere “perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza(141)!” Devono essere, attraverso la loro arte, “annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità(142)!” E non aver paura di confrontarsi “con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come loro, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita(143)!”.

La fede non toglie nulla al loro genio, alla loro arte, “anzi li esalta e nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la meta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente(144)”. 

 

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(123) Abs. da: “Appello a Sua Santità Papa Benedetto XVI”, da me sottoscritto nel 2009.

(124) - (125) Benedetto XVI, Catechesi all’udienza generale, Città  del Vaticano, Aula Paolo VI, 18 novembre 2009. 

(126) Cardinale Gianfranco Ravasi,  Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Prefazione del libro “Kunst und Kirche auf Augenhöhe. Künstlerische Gestaltungen in der Diözese a cura di Martina Gelsinger, Alexander Jöchl e Huber Nitsch, Linz, Gutenberg, 2010. 

(127) Cardinale Gianfranco Ravasi,  ibid.

(128) Cardinale Gianfranco Ravasi,  ibid. 

(129) Voix des monuments” è il titolo della  trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia, nell’attuale Turchia, del famoso archeologo dell’Oriente cristiano Guillaume de Jerphanion.

(130) Cardinale Gianfranco Ravasi,  ibid. 

(131) Sandro Barbagallo,  L’arte sacra deve vivere il proprio tempo, L’Osservatore Romano, 29 luglio 2010.

(132) Paolo Portoghesi,  Lo sforzo di rendere visibile la fede, L’Osservatore Romano, 19-20 ottobre 2009.

(133) Benedetto XVI, Discorso agli artisti, Città del Vaticano, Cappella Sistina, 21 novembre 2009.  

(134) - (135) Discorso agli artisti, Città del Vaticano, Cappella Sistina, 7 maggio del 1964.

(136) Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305.

(137) Benedetto XVI, Discorso agli artisti, ibid.  

(138) - (144) Benedetto XVI, Discorso agli artisti, ibid.

 

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Abstract da:

Raimondo Villano “Logos e teofania nel tempo digitale”, Parte II, Capitolo X, Chiron, giugno 2012, pag. 260.

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