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Abstract :

A16. Nuova evangelizzazione nel mondo digitale

Nuova evangelizzazione nel mondo digitale

Nella rete si è “chiamati a collocarsi come ‘animatori di comunità’ attenti a ‘preparare cammini che conducano alla Parola di Dio, e ad esprimere una particolare sensibilità per quanti(220)” “sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche(221)”. La rete potrà così diventare una sorta di ‘portico dei gentili’, dove ‘fare spazio anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto(222)”.

Aprendosi all’umanità digitale, tuttavia, ci si imbatte ancor più nel secolarismo dell’età contemporanea, in un’inquietante apostasia dal cristianesimo, una diffusa cristofobia.

Una delicata questione, ad esempio, è quella che concerne le radici cristiane d’Europa la cui trattazione ha generato e genera finanche un’offesa ad aree di non cristiani oggi massicciamente presenti nel vecchio continente. In passato lo stesso Cardinale Joseph  Ratzinger si chiedeva chi verrebbe offeso o l’identità di chi  sarebbe minacciata. La motivazione di questo duplice “no”, a Dio e alla radici cristiane, risiede nel presupposto che soltanto la cultura razionalistica radicale può costituire l’identità europea, nonostante la tragica storia dell’Europa del secolo scorso abbia dimostrato che la libertà umana, sganciata da Dio e dalla sua legge, conduce a un dogmatismo che, alla fine, umilia l’uomo, sopprimendone la libertà e che le ideologie atee naziste e comuniste non hanno prodotto paradisi terrestri, ma solo tragici regimi di terrore, che hanno negato dignità e libertà all’essere umano, alle vittime e agli stessi carnefici(223)

La risposta cristiana al secolarismo ateo è fondata sull’esperienza dei secoli, sulla regula aurea, secondo la quale “vivere nella verità può cambiare quello che nella storia sembra incambiabile”. 

La ‘cristofobia’, poi, si manifesta con accenti e motivazioni diverse. Ad esempio, con l’errata convinzione di taluni intellettuali  europei “che considerano la tragedia della Shoah come logica conclusione dell’antigiudaismo storico, mentre è la diretta conseguenza della concezione atea del nazionalsocialismo.

Una seconda componente della cristofobia è presente negli epigoni della rivoluzione giovanile degli anni Sessanta che fu sostanzialmente anticristiana.

Inoltre, la cristofobia è il contraccolpo psicologico e ideologico alla caduta del comunismo nel 1989 nell’Europa dell’Est dovuta all’influenza straordinaria della personalità di Giovanni Paolo II(224)”. 

Ma è impensabile sognare un’Europa come “una area speciale di speranza umana” (preambolo del progetto di costituzione europea) senza gli uomini e le donne, grandi e piccoli, che hanno dato ingegno e creatività alla civiltà europea. Così come è impensabile che l’Europa difenda “i valori universali degli inviolabili e inalienabili diritti della persona umana” senza il fondamento della civiltà cristiana. 

Questa apostasia dal cristianesimo, che viene propagandata dalla cronaca quotidiana, in realtà sta sprofondando l’Europa in una grave crisi morale e sociale:  “relativismo, laicismo, scientismo e tutto quello che oggi viene messo al posto della fede sono i veleni, non gli antidoti, i virus che aggrediscono il corpo già malato, non gli anticorpi che lo difendono(225)”.

L’esperimento che è in corso oggi in Europa, e cioè vivere come se Dio non esistesse, non sta dando i frutti promessi per tre ragioni.

Anzitutto perché il secolarismo, che sta alla base dei diritti civili, non si autogiustifica senza un riferimento forte al bene e al vero. Il secolarismo resta senza fondamento. Mentre, il cristianesimo, con l’idea dell’uomo immagine di Dio, apporta alla società il valore incommensurabile della dignità personale, senza la quale non c’è né libertà, né uguaglianza, né solidarietà, né giustizia(226)

Inoltre, da una parte, l’Europa si vanta di essere diventata la terra più scristianizzata dell’Occidente, ritenendo il cristianesimo un ostacolo al suo sviluppo civile, dall’altra, gli europeisti si lamentano di una mancanza di “identità europea” e cercano un’anima alla nuova Europa. Ma senza l’identità cristiana l’Europa non risulta più aperta, più tollerante, più pacifica. Al contrario:  “senza la consapevolezza dell’identità cristiana, l’Europa si distacca dall’America e divide l’Occidente; perde il senso dei propri confini e diventa un contenitore indistinto; non riesce a integrare gli immigrati, anzi li ghettizza o si arrende alla loro cultura; non è in grado di vincere il fondamentalismo islamico, anzi favorisce il martirio dei cristiani in tante parti del mondo e anche in casa propria(227)”.  In terzo luogo, si afferma che la libertà consiste nel dare cittadinanza a tutte le libertà e, quindi, non bisognerebbe insistere sulla religione cristiana, dal momento che la democrazia è religione in se stessa. Si scopre, però, come aveva già visto Platone, che una tale democrazia relativistica è autofagica, divora se stessa(228). Se non c’è più la verità, ma solo la somma delle varie credenze, se non c’è più la legge morale naturale, ma solo l’assoluta libertà dell’individuo, “allora il bene morale può essere solo sottoposto al voto e il voto, si guardi alle nostre legislazioni in materia di bioetica, può decidere che è bene qualunque cosa(229)”.

L’Europa se vuole ritrovare la sua anima, la sua identità, i suoi fondamenti e la verità delle cose deve dirsi cristiana. I grandi teorici del liberalismo, John Locke, Thomas Jefferson, Immanuel Kant esaltavano la libertà umana, ma ponevano una condizione precisa per poterla realizzare:  il rispetto della legge naturale.

Ciò che assicurava questo rispetto, per Kant e per gli altri, era il dovere di coscienza di aderire al principio del bene e non a quello del male. E il bene al quale Kant si riferiva con la sua religione nei limiti della ragione era proprio l’etica cristiana. 

Sono molte le ragioni che dovrebbero motivare gli europei a dirsi cristiani:  la memoria della loro origine; la possibilità di superare la crisi della loro società; la disumanità di un secolarismo autosufficiente e ateo; il mantenimento della stabilità sociale; l’orgoglio dell’universalità della civiltà europea; la fondazione razionale e non pregiudiziale della distinzione tra Stato e Chiesa; la sopravvivenza delle istituzioni sociopolitiche. 

Nel 1942 Benedetto Croce scrisse il saggio “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Per lui il cristianesimo era la più grande rivoluzione dell’umanità, che ha prodotto una straordinaria civiltà umana, che ancora oggi sostiene la società contemporanea.

Il cristianesimo è al fondo del pensiero moderno e del suo ideale etico.

Per Kant, ad esempio, è proprio dell’uomo vivere velut si Deus daretur, anzi, è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio(230). “Vivere come se Dio esistesse significa negare all’uomo quel senso di onnipotenza e di libertà assoluta che prima lo esalta e poi lo avvilisce e degrada, riconoscere la nostra condizione di finitezza, essere consapevoli dell’esistenza di limiti etici del nostro agire, che è precisamente uno dei punti del decalogo delle ragioni per cui i liberali devono dirsi cristiani(231)”. Velut si Deus daretur è la condizione moralmente necessaria perché l’Europa possa ritrovare la sua identità e coltivare la speranza. L’Europa deve ricordare che all’inizio e in tutto il corso della sua storia c'è il Vangelo:  “il cristianesimo è l’anima dell’Europa, non perché non si sia mescolato con altre culture, ma perché le ha portate ad unità, le ha articolate, fuse, composte in un quadro che ha fatto della terra in cui sbarcarono Pietro e Paolo il continente cristiano(232)”. L’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’Europa contemporanea rispecchia il messaggio evangelico della carità e della libertà:  “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo” (Marco, 16, 15-16); “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Giovanni, 1, 11-12).

La Chiesa propone non impone il Vangelo. 

Il compito della Chiesa in Europa è triplice:  proclamare il Vangelo; testimoniarlo con coerenza; annunciare il Vangelo nei moderni areopaghi della cultura, della politica, dei massmedia, dell’educazione dei giovani.

Il Vangelo deve essere sempre e dovunque, quindi, non in formula astratta ma in pensiero forte, frutto di intuizione profondamente profetica, secondo l’indirizzo espresso dal Sommo Pontefice  Benedetto XVI con la sua Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio Ubicumque et semper”, riportata di seguito, con la quale istituisce il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.

La Chiesa ha il dovere di annunciare sempre e dovunque il Vangelo di Gesù Cristo. Egli, il primo e supremo evangelizzatore, nel giorno della sua ascensione al Padre comandò agli Apostoli:  “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20). Fedele a questo comando la Chiesa, popolo che Dio si è acquistato affinché proclami le sue ammirevoli opere (cfr. 1 Pt 2, 9), dal giorno di Pentecoste in cui ha ricevuto in dono lo Spirito Santo (cfr. At 2, 14), non si è mai stancata di far conoscere al mondo intero la bellezza del Vangelo, annunciando Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, lo stesso “ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8), che con la sua morte e risurrezione ha attuato la salvezza, portando a compimento la promessa antica.

Pertanto, la missione evangelizzatrice, continuazione dell’opera voluta dal Signore Gesù, è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, espressione della sua stessa natura. 

Tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici. Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo. Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo. Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all’ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli. Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell’uomo. E se da un lato l’umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cfr. 1 Pt 3, 15), dall’altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale. 

Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose. 

Con lungimiranza il Servo di Dio Paolo VI osservava che l’impegno dell’evangelizzazione “si dimostra ugualmente sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri” (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, n. 52). E, con il pensiero rivolto ai lontani dalla fede, aggiungeva che l’azione evangelizzatrice della Chiesa “deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo” (Ibid., n. 56).

Il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II fece di questo impegnativo compito uno dei cardini del suo vasto Magistero, sintetizzando nel concetto di “nuova evangelizzazione”, che egli approfondì sistematicamente in numerosi interventi, il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione. Un compito che, se riguarda direttamente il suo modo di relazionarsi verso l’esterno, presuppone però, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da evangelizzata ad evangelizzatrice. Basti ricordare ciò che si affermava nell’Esortazione postsinodale Christifideles Laici:  “Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come se Dio non esistesse”. Ora l’indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all’ateismo dichiarato. E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell’esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire. (...)”. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, Come ho avuto modo di affermare nella mia prima Enciclica Deus caritas est: “All'inizio dell’essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1). Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l'inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita. Pertanto, alla luce di queste riflessioni, dopo avere esaminato con cura ogni cosa e aver richiesto il parere di persone esperte, stabilisco e decreto quanto segue:  

Art.1. 1. È costituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, quale Dicastero della Curia Romana, ai sensi della Costituzione apostolica Pastor bonus. 2. Il Consiglio persegue la propria finalità sia stimolando la riflessione sui temi della nuova evangelizzazione, sia individuando e promuovendo le forme e gli strumenti atti a realizzarla. 

Art. 3. Tra i compiti specifici del Consiglio si segnalano:  1. approfondire il significato teologico e pastorale della nuova evangelizzazione; 2. promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l'attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione; 4. studiare e favorire l'utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione; 5. promuovere l’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo. Una tale impostazione è in grado di saper guardare con realismo al presente della Chiesa per prospettarle un cammino che la impegnerà non poco nel prossimo futuro.

Spesso la mancanza di conoscenza dei contenuti basilari della fede porta, inevitabilmente, ad assumere comportamenti e forme di giudizio morale spesso in contrasto con l'essenza stessa della fede, così come è stata sempre annunciata e vissuta nel corso dei venti secoli della nostra storia. Già in passato il Cardinale Joseph Ratzinger  al principio secolarista di vivere nel mondo etsi deus non daretur aveva opposto il principio di vivere nel mondo veluti si Deus daretur. L’obiettivo appare una grande sfida per la Chiesa intera nel dover riflettere e trovare le forme adeguate per rinnovare il proprio annuncio. “La ‘nuova evangelizzazione’ impegna a elaborare un pensiero forte in grado di sostenere un’azione pastorale corrispondente e deve essere in grado di verificare con attenzione le differenti tradizioni e obiettivi che le Chiese possiedono in forza della ricchezza di tanti secoli di storia: una pluralità di forme che non intacca l’unità, ma la rende più articolata e ne permette la dovuta efficacia presso il nostro contemporaneo(233)”. Ci si deve avvalere dei  contenuti teologici e pastorali forti del magistero di questi ultimi decenni e  “promuovere” l’uso del Catechismo, uno dei frutti più maturi delle indicazioni conciliari, in cui “è raccolto in modo organico l’intero patrimonio dello sviluppo del dogma e rappresenta lo strumento più completo per trasmettere la fede di sempre dinanzi ai costanti cambiamenti e interrogativi che il mondo pone ai credenti(234)”. Occorre, inoltre, “trovare tutte le forme che il progresso della scienza della comunicazione ha realizzato per farle diventare strumenti positivi a servizio della nuova evangelizzazione(235)”. Ciò è un “compito che  tocca  da   vicino  il   dicastero,   consapevole del ruolo determinante che i mezzi di comunicazione hanno nel veicolare la cultura e la mentalità nel contesto attuale(336)”. Occorrono, soprattutto, riservare fedeltà al successore di Pietro e porre impegno nel rendere parola di salvezza per l’uomo contemporaneo il Vangelo “che non è un mito ma la testimonianza viva di un evento storico che ha cambiato il volto della storia(237)”. La Chiesa, dunque, “dovrebbe anche oggi aprire una sorta di ‘Cortile dei Gentili’ dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto(238)”. Tali elementi, in effetti, hanno prodotto l’effetto di  un dicastero vaticano, ad opera del Pontificio Consiglio della Cultura, denominato “Cortile dei Gentili(239)” con il compito di per avviare un dialogo serio e rispettoso tra credenti e agnostici o atei. 

“Credenti e non credenti, pur in territori differenti, non devono rinserrarsi in un isolazionismo sacrale o laico, ignorandosi o peggio scagliandosi sberleffi o accuse, come vorrebbero i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti. Certo, non si devono appiattire le differenze, liquidare le diverse concezioni, ignorare le discordanze(240)”.

Ferme restanti le appartenenze, i pensieri e le parole, le opere e le scelte possono confrontarsi e persino incontrarsi. “Quello che il progetto denominato ‘Cortile dei Gentili’ vuole proporre è un duetto (dal latino duo) ove le voci possono appartenere anche agli antipodi sonori, come un basso e un soprano, eppure riescono a creare armonia, senza per questo rinunciare alla propria identità, cioè, fuor di metafora, senza scolorirsi in un vago sincretismo ideologico. In questo incontro tra i due ‘cortili’, una scelta previa è quella della purificazione dei due concetti di base.

Da un lato, i ‘gentili’ devono ritrovare quella nobiltà ideale così com’era espressa dai grandi sistemi ‘ateistici’ (pensiamo a un Marx o alla celebre parabola sul Dio morto della Gaia scienza di Nietzsche), prima che venissero incapsulati in sistemi politico-ideologici o piombassero nello scetticismo e nell’idolatria delle cose o degenerassero nell’ateismo sprezzante, sarcastico e infantilmente dissacratorio. D’altro lato, la fede deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell’essere e dell’esistere, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo e rivelando che la teologia ha un suo rigoroso statuto epistemologico parallelo e specifico rispetto a quello della scienza - si pensi alla ‘teoria dei due livelli’ indipendenti e non conflittuali propugnata da Stephen Gould e ripresa da Francisco Ayala, entrambi pensatori e scienziati.

Ma oltre a questo, l’incrocio tra le voci diverse può avvenire attorno a temi comuni - anche se affrontati e risolti con esiti eterogenei - come l’etica, l’antropologia, la spiritualità, le domande ‘ultime’ su vita e morte, bene e male, amore e dolore, verità e menzogna, pace e natura, trascendenza e immanenza.

Senza attesa di conversioni o di inversioni di cammini esistenziali, ma soprattutto evitando le diversioni nel vuoto, nella banalità, negli stereotipi, gentili e cristiani - i cui ‘cortili’ sono contigui nella città moderna - possono scoprire consonanze e armonie pur nella loro difformità; possono deporre i linguaggi soltanto autoreferenziali e possono far alzare lo sguardo a un’umanità spesso troppo curva solo sull’immediato, sulla superficialità, sull’insignificanza, verso l’Essere nella sua pienezza(241)”. 

Va considerato, tuttavia, che credenti e non credenti si trovano spesso sull’altro terreno rispetto a quello proprio di partenza: ci sono, infatti, come si suol dire, credenti che credono di credere, ma in realtà sono increduli e, viceversa, non credenti che credono di non credere, ma il loro è un percorso che si svolge in quel momento sotto il cielo di Dio(242). L’incontro tra credenti e non credenti avviene quando si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’anelito profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragioni profonde della speranza del credente e dell’attesa dell’agnostico.

“(…) La tipologia comune a coloro che non si fermeranno a dialogare su tale frontiera è quella di chi è convinto di aver già in sé tutte le risposte e di doverle solo imporre.

Questo, però, non significa che ci si presenta soltanto come mendicanti, privi di qualsiasi verità o concezione della vita(243)”.  Ponendosi per congruenza sul territorio del credere, si può “evocare la ricchezza che questa regione rivela nei suoi vari panorami ideali. Pensiamo al raffinato statuto epistemologico della teologia come disciplina dotata di una sua coerenza, alla visione antropologica cristiana elaborata nei secoli, all’investigazione sui temi ultimi della vita, della morte e dell’oltrevita, della trascendenza e della storia, della morale e della verità, del male e del dolore, della persona, dell'amore e della libertà; pensiamo anche al contributo decisivo offerto dalla fede alle arti, alla cultura e allo stesso ethos dell’Occidente.

Questo enorme bagaglio di sapere e di storia, di fede e di vita, di speranza e di esperienza, di bellezza e di cultura è posto sul tavolo di fronte al ‘gentile’ che potrà, a sua volta, imbandire la mensa della sua ricerca e dei suoi risultati per un confronto(244)”.

Spostandosi ora sull’altro versante, quello dell’ateo e delle sue oscillazioni,  “…è significativo che il Concilio Vaticano II abbia riconosciuto che, obbedendo alle ingiunzioni della sua coscienza, anche il non credente può partecipare della risurrezione in Cristo che ‘vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore invisibilmente lavora la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti (...) Perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale’ (Gaudium et spes, 22).

In ultima analisi l’ostacolo che si leva per questo dialogo-incontro è forse uno solo, quello della superficialità che stinge la fede in una vaga spiritualità e riduce l’ateismo a una negazione banale o sarcastica.

Il dialogo è per far crescere lo stelo delle domande, ma anche per far sbocciare la corolla delle risposte.

Almeno di alcune risposte autentiche e profonde(245)”.

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(220) Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno promosso dalla Conferenza episcopale italiana sul tema “Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale” ricevuti in udienza nell’Aula Paolo VI, Città del Vaticano, 24 aprile 2010.

(221), (222) Benedetto XVI, Discorso in Piazza di Spagna, 8 Dicembre 2009.

(223) Arcivescovo Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, Lectio ai docenti e agli studenti della University of Notre Dame nell'Indiana (Stati Uniti), 8 agosto 2009.

(224) Ibid.

(225), (227) Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo l’Europa l’Etica, Milano, Mondadori, 2008, pag. 5. 

(228) Platone, La Repubblica, viii, xi-xiv.

(229) Marcello Pera, Ibid., pag. 7. 

(230)  Critica della ragion pratica, Bari, Laterza, 1966 p. 156. 

(231), (232) Marcello Pera, Ibid., pp. 57-58. 

(233) - (237) Arcivescovo Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Non formula astratta ma pensiero forte, L’Osservatore Romano, 13 ottobre 2010.

(238) Benedetto XVI, Pre­sentazione degli auguri natalizi alla Curia, 21 dicembre 2009.

(239) “Gentili” designa nel linguaggio ecclesiastico i non-ebrei, ossia i pagani accostatisi al cristianesimo. San Paolo si è mpòto battuto per aprire a costoro le porte della nuova fede, senza costringerli a passare previamente attraverso la circoncisione e, quindi, l’ebraizzazione, come alcuni esponenti della comunità cristiana delle origini (i giudeo-cristiani) esigevano.

(240) Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio De Cultura, Attraversiamo insieme il deserto, L’Osservatore Romano, 2 giugno 2010.

(241) Arcivescovo Gianfranco Ravasi, ibid

(242), (245) Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio De Cultura, Nel Cortile dei Gentili si coltiva il fiore del dialogo, L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2011.

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Abstract da:

Raimondo Villano “Logos e teofania nel tempo digitale”, Parte III, Capitolo XII, Chiron, giugno 2012, pag. 260.

 

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